S. Messa di ringraziamento per Benedetto XVI
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
La Chiesa che è in Venezia, profondamente commossa, ringrazia con affetto il Santo Padre
Benedetto XVI. Carissimi, inizio questa mia breve riflessione - in occasione della celebrazione eucaristica di
ringraziamento al Santo Padre Benedetto XVI - con un suo pensiero: “Dio ama compiere le sue opere con
mezzi poveri. Chiede però di mettergli a disposizione una fede generosa”.
Carissimi confratelli nel sacerdozio, diaconi, consacrati, fedeli, mi sembra che proprio questo
pensiero di Benedetto XVI esprima bene il senso del gesto da lui compiuto con la rinuncia al ministero
petrino. Sì, perché tale gesto Benedetto XVI ha inteso compierlo non per timore ma per il bene della Chiesa.
Un pastore non deve avere timore delle pressioni, ma deve guardare sempre il bene della Chiesa.
Sono ancora vivissime, in noi, la grande sorpresa e la forte emozione prodotte dall’imprevisto
annuncio col quale il Santo Padre l’11 febbraio - memoria liturgica della Beata Vergine di Lourdes -
comunicava alla Chiesa e al mondo la Sua decisione di rinunciare, dopo aver molto riflettuto e pregato, al
ministero petrino.
Un gesto che - come ben sappiamo - si è ripetuto pochissime volte nel corso della bimillenaria storia della Chiesa e, già, questa semplice constatazione risulta oltremodo eloquente. Assistiamo ma come Chiesa in realtà sentiamo di partecipare, ossia d’essere personalmente coinvolti, ad un evento - lo ribadisco - epocale.
E’ un evento che la fede ci chiede di leggere a partire dalla certezza che la Chiesa è, anche quando
questo non ci risulta di immediata comprensione, nelle mani sagge e onnipotenti di Dio. Dio, infatti, è
sempre Padre, anche quando ci chiede di percorrere strade nuove, inesplorate e, non di rado, irte d’insidie.
Il gesto di Benedetto XVI segna, proprio nella sua inattesa drammaticità, una frattura col passato e
una novità nei confronti di un futuro che scorgiamo difficoltoso da interpretare e - se rimaniamo alle sole
risorse umane - inestricabile e, addirittura, impenetrabile. Benedetto XVI ha compiuto un gesto, ad un tempo, umile e coraggioso, consapevole e - come lui stesso ha sottolineato con forza - libero, al di là di ogni
condizionamento umano perché un pastore non si fa condizionare; un gesto, quindi, che esprime quello che il
Santo Padre, oggi, ritiene essere il bene della Chiesa, il vero motivo per cui un pastore deve agire.
Possiamo, allora, parlare di un gesto che va al di là del Suo personale stato d’animo e delle sue valutazioni soggettive o di comodo.
Certamente non è stata una decisione facile; in essa tutto, infatti, è stato soppesato, con scrupolo,
di fronte a Dio.
Un pastore non agisce in base all’emotività.
Il Signore si è servito e si servirà proprio di questo gesto - che in sé può sembrare di resa, di fragilità
e di debolezza - per irrompere, nella vita della Sua Chiesa, con la forza della Sua grazia che tutto sana,
rinnova e rigenera. E’ un gesto, quello di Benedetto XVI, che interpella profondamente la Chiesa a tutti i
livelli. Perché oggi la Chiesa - nella sua componente umana, non in quella divina che è sempre santa - appare
provata e bisognosa di una vera purificazione.
Il nostro carissimo e - come abbiamo visto in questi giorni - amato papa Benedetto XVI, col gesto
della rinuncia, in realtà ha inteso consegnare la Chiesa, in modo totale, nelle mani del Signore perché Lui
operi dove gli uomini non riescono. Questo gesto si manifesta sempre più come atto di fede umile e, insieme,
coraggiosa a servizio della Chiesa. Un pastore deve essere umile ma coraggioso.
E qui viene alla mente quanto l’apostolo Paolo scrive nella seconda lettera ai Corinzi, a proposito
della forza di Dio che si manifesta nella debolezza e nella fragilità del discepolo credente: “Mi vanterò
quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio
nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo:
infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 9b-10). Un pastore accetta le angosce e le
sofferenze per il bene della Chiesa.
Mi sembra proprio che, tramite questa scelta, il Signore abbia voluto intervenire in modo più visibile,
quasi in maniera palpabile, nella storia della Chiesa che innanzitutto - non dimentichiamolo - è sua. Anzi, è
la sua sposa. Mi sembra così che il Signore, attraverso la rinuncia al ministero petrino da parte del Santo
Padre, abbia voluto - in modo eloquente e inusuale - indicare alla sua Chiesa il primato di Dio. La Chiesa,
fatta di uomini, non è degli uomini ma di Dio.
La rinuncia al ministero petrino - nell’intenzione di Benedetto XVI - mi pare indicare, con forza, la
necessità di una ripartenza, di un nuovo inizio. Se traduciamo il gesto in termini di vita ecclesiale si tratta
della richiesta di una profonda, vera e reale purificazione, di affidarsi alla grazia del momento presente che ci
ha visitato in una forma inattesa e drammatica, come soltanto Dio sa fare. Anche attraverso questo gesto
siamo invitati a cogliere la cura particolare che Gesù - unico e vero sposo della Chiesa - ha nei confronti
della sua sposa.
Il suo vicario Benedetto XVI, rinunciando al ministero dell’apostolo Pietro, compie - lo ripeto - un
atto di umiltà, di coraggio e di libertà - come conviene ad un pastore - ma, nello stesso tempo, un atto di
magistero e di governo. Con questo gesto, infatti, è come se abbia detto: nulla di meno era possibile! Nulla di
meno era possibile perché tutti compiano quanto è in loro potere affinché la Chiesa torni ad essere il “sì”
fecondo, libero e non condizionabile detto al suo Signore crocifisso e glorioso.
Penso che, col gesto drammatico della rinuncia al ministero di successore dell’apostolo Pietro,
Benedetto XVI si sia idealmente posto sulla “soglia”, quasi a significare il vecchio che giunge a termine e il
nuovo che s’intravede. D’altra parte - sia come teologo sia come pastore - Joseph Ratzinger-Benedetto XVI è ritornato spesso sul tema della Chiesa come una “compagnia” sempre da riformare e amava parlare della “restaurazione” come di un ritorno all'originale progetto evangelico.
È significativo, quindi, che la provvidenza di Dio si sia servita di questo suo gesto che per la sua drammaticità traumatica - per trovare un precedente dobbiamo tornare indietro di 600 anni - può avere in sé la forza di chiudere e di aprire una pagina nuova nel flusso continuo della storia della Chiesa.
È un pontificato, quello di Benedetto XVI, che rimarrà e inciderà. Non solo: attraverso tale gesto - e
grazie alla libertà e all’umiltà di chi lo ha compiuto - esprime come la guida ultima della Chiesa appartenga a
Dio che - come abbiamo ricordato all’inizio, citando proprio un pensiero di Benedetto XVI - “ama compiere
le sue opere con mezzi poveri. Chiede però di mettergli a disposizione una fede generosa”. Questo è il
compito primo del pastore: mezzi poveri - prima di tutto nella sua persona - ma fede generosa, umile, libera,
coraggiosa e non condizionabile.
Il nostro grazie affettuoso e riconoscente va all’amato Benedetto XVI che, appena eletto alla guida
della Chiesa di Roma la sera del 19 aprile 2005, si era presentato come “un semplice e umile lavoratore nella
vigna del Signore” e come tale si è comportato, in tutto il suo pontificato, confondendo quanti si sono
mostrati nei suoi confronti (ma è il destino dei pastori…) incapaci non dico di giudizi benevoli o generosi ma
almeno obiettivi e sereni. I tanti che l’hanno amato avranno la gioia e la consolazione di sentirlo ancora con
loro, dedicato - come lui stesso ha confidato - alla preghiera, al silenzio e alla contemplazione del volto del
Signore. Grazie, carissimo e amato Santo Padre!