Letta l’esortazione post sinodale
Evangelii Gaudium mi sono rinchiuso nel silenzio, consapevole di quanto
in certi momenti, l’efficacia della preghiera cristiana che nasce dalla
fede, giovi molto più alla Chiesa di quanto non le giovi invece il
prendere la rincorsa per andare a battere la testa sopra a un muro di
gomma, mossi da una disperazione tutta quanta umana e forse anche poco
cristiana. Con dolore e smarrimento posso solo dire che quel documento
sembra un assurdo: non si sa a chi parla né che cosa vuole. Non è né
teologia né omiletica ma retorica con non poche punte di ambiguità.
Sembra tutto quanto dettato da quei teologi progressisti ormai al potere
che mirano a “reinventare la Chiesa” con le loro rovinose “parole
nuove”».
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Il Padre Ariel S. Levi di Gualdo ci ha
offerto la versione italiana di questo suo articolo che tra poco sarà
pubblicato su una rivista teologica francese. Questa da noi pubblicata
non è solo la versione in lingua italiana ma la versione concettuale
italiana. Nel testo francese i contenuti teologici ed ecclesiologici
sono gli stessi ma il taglio è internazionale e tutti i riferimenti
legati a nostre specifiche realtà locali nazionali sono quindi stati
omessi.
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1. QUELLA DOMANDA INSIDIOSA
Buona parte del mio tempo la trascorro
tra il confessionale e gli spazi privati in cui si svolgono gli incontri
di direzione spirituale, dove con frequenza sempre più crescente mi
capita di sanare le ferite sanguinanti di confratelli sacerdoti, ma
anche di seminaristi partiti con tutta la purezza generata delle
migliori speranze cristiane, spesso disilluse, peggio a volte tradite.
Affermare: “Mi accade di sanare” è un modo di dire improprio. Sappiamo
bene infatti che a sanare è solo la grazia di Dio, che si serve
all’occorrenza di tanti strumenti diversi, incluso un utile somaro come
me.
Un seminarista, studente di teologia
presso una pontificia università romana, mi ha rivolto una domanda
interessante ma anche complessa; a dire il vero anche insidiosa. Per
questo ho deciso di rendere partecipi i lettori di questa Rivista
teologica del dialogo che si è svolto tra questo giovane appena
trentenne e me, giunto ormai alle soglie dei cinquant’anni. Questa la
domanda rivolta: «Il periodo del post-concilio è stato celebrato come
l’era della “nuova pentecoste” annunciata da Giovanni XXIII. In realtà
ha visto manifestarsi una crisi come forse mai prima la Chiesa dovette
affrontare. Come spiegare una così radicale devastazione e un così lungo
periodo di cecità e di silenzio da parte di chi avrebbe il dovere di
custodire la fede e di guidare il gregge?». Ho risposto con delle
considerazioni teologico-pastorali incentrate sulla “ermeneutica della
continuità” e sulla “ermeneutica della discontinuità” …
… negli anni del post Concilio presero
vita due ermeneutiche contrarie, a tratti antitetiche. L’ermeneutica
della discontinuità e della rottura, che ha fatto ampia breccia sui
mass-media grazie alla prolifica opera di molti esponenti della teologia
moderna; e l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella
continuità. L’ermeneutica della discontinuità porta a una rottura
inevitabile tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare, con tutto
ciò che di pericoloso ne consegue.
Credo che il Signore Gesù sia stato chiaro nell’affermare «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo»[1].
E spiega anche come mai fosse «utile per voi che io me ne vada;
perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore. Ma, se me ne
vado, io ve lo manderò»[2].
E ci rassicura: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà
nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi
ho detto»[3].
L’evento della Pentecoste cominciato nel cenacolo dello Spirito Santo
non ha mai avuto fine e da allora fermenta in un processo di
ininterrotta continuità, con buona pace dei padri della Scuola di
Bologna: Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e della cosiddetta
ermeneutica della discontinuità prodotta a loro dire dal Vaticano II.
Teoria sulla quale suonano — mi si passi il termine affatto insolente ma
solo giocondo — flautini e controfagotti come certi nostri laici
cattolici italiani, da Alberto Melloni a Enzo Bianchi, circondati da un
riverente coro secolare d’atei devoti assisi dentro e fuori dal Cortile dei Gentili
del Cardinale Gianfranco Ravasi; e che da troppo tempo pontificano
senza possibilità d’ortodosso contraddittorio dottrinale alcuno.
Presenze a tratti assolute sulle televisioni pubbliche e private,
promossi dalla stampa anticattolica e dalla grande editoria italiana,
incluse purtroppo stampa ed editoria cattolica, a partire da quella
gestita da congregazioni religiose come la Società San Paolo, o persino
dalla Conferenza Episcopale Italiana, come nel caso di Avvenire,
organo ufficiale dei Vescovi d’Italia, da sempre vetrina e tribuna per
svariati di questi personaggi noti per la loro discutibile dottrina.
2. QUELLA DITTATURA DISTRUTTIVA DEI MAESTRI DEL «PIÙ DIALOGO, PIÙ COLLEGIALITÀ PIÙ DEMOCRAZIA NELLA CHIESA»
Nel senso più squisitamente gramsciano
del termine, flautini e controfagotti hanno da troppo tempo egemonizzato
l’intera scena pubblica sul piano storico, teologico e pastorale,
ponendo in atto un pericoloso processo che de facto esclude ogni voce contraria, ma soprattutto ogni voce autenticamente cattolica[4].
Un fenomeno giunto ormai al tumore con metastasi diffuse nelle nostre
chiese del Nord Europa, dove da decenni s’ha persino l’ardire di
chiamare il tutto: “Più dialogo … più collegialità … più democrazia”[5],
mentre sempre più numerose sono le chiese antiche dei grandi centri
storici urbani ormai vuote da alcuni decenni e per questo messe in
vendita dalle diocesi, per essere acquistate da privati o da società e
dalle stesse trasformate in eleganti ristoranti o in negozi di lusso.
Credo che affiggere su questi stabili lapidi alla memoria del Padre
Edward Cornelis Florentius Alfonsus Schillebeeckx O.P. o del Padre Karl
Rahner S.J, per celebrare e tramandare ai posteri i concreti risultati
della loro evidente opera e di quella ancora peggiore dei loro
“nipotini” socio-politici camuffati da teologi, più che ironia sarebbe
solo pura e semplice onestà intellettuale ed ecclesiale, proprio ciò che
oggi pare mancare più che mai, in basso e in alto.
3. LE PERLE: BRUNO FORTE E IL “PAPATO
COLLEGIALE”, IL PORTAVOCE DELLA SALA STAMPA VATICANA ED ENZO BIANCHI CHE
“REINVENTA LA CHIESA”
Di recente, poco dopo l’elezione del
nuovo Romano Pontefice, S.E. Mons. Bruno Forte, responsabile della
dottrina della fede della Conferenza Episcopale Italiana — di cui s’è
occupato in recente passato il presbitero e teologo Brunero Gherardini,
senza che ciò producesse i frutti da pochi o da molti sperati[6]
— è tornato a deliziarci coniando un nuovo istituto ecclesiale in
un’intervista rilasciata nel marzo 2013 a uno Speciale di Rai Uno: il
«Papato collegiale». Nei giorni successivi, a noi presbiteri che viviamo
a contatto con le membra vive del Popolo di Dio, non è stato facile
rispondere a quanti hanno domandato spiegazioni a tal riguardo. Ciò non
tanto per la perla ecclesiologica in sé, ma per l’autorevole bocca che
via etere l’ha fatta giungere alle orecchie di milioni di
telespettatori.
Simile modo mi piacerebbe sorvolare — ma
per cattolica onestà pastorale e teologica non lo posso fare — sul
pubblico discorso fatto dal portavoce ufficiale della Sala Stampa
Vaticana in occasione del 70° genetliaco del “priore” di Bose, ossia
quella deliziosa persona di Enzo Bianchi che «ci aiuta a reinventare la
Chiesa»[7]. Un termine, quello di «reinventare la Chiesa» o di «reinventare la fede»[8],
olezzante vecchia naftalina anni Settanta, tra fumosi comitati di base
dove si giocava a fare sul serio quando si discuteva su “la sintesi
dialettica dell’alternanza ideologica” e nei quali l’effige di nostro
Signore Gesù Cristo veniva rischiosamente confusa con quella di Ernesto
Guevara, noto come el Che. E se nel 2013, al riverbero delle
candeline poste sulla torta di compleanno di un settantenne, presente
come illustre relatore anche il portavoce ufficiale di Sua Santità, ci
si trastulla ancora su questo «reinventare», francamente non ci resta
che implorare: miserere nostri, Domine, miserere nostri. In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum[9]. E infine confidare: quoniam in aeternum misericordia eius[10].
4. NON SI GIOCA CON LE PAROLE: L’EVENTO DELLA PENTECOSTE È NEGAZIONE DELLA ERMENEUTICA DELLA ROTTURA
L’evento storico e reale della Pentecoste[11]
è la negazione cristologica e pneumatologica dell’ermeneutica della
rottura, per non parlare di certe ricostruzioni che nascono dopo
devastanti decostruzioni sulle ceneri delle quali si cerca poi di
reinventare la Chiesa di Cristo. Nell’esperienza cristologica noi siamo
chiamati a scoprire e accogliere il Verbo Incarnato e a viverlo in
unione di mutua trasformazione[12],
non certo a porlo sul tavolo delle autopsie esegetiche per smembrarlo e
per poi ricucirlo a nostro modernistico piacimento, prendendo del corpo
di Cristo ciò che ci piace e nel modo in cui ci piace. O per meglio
dire: «Si è affermato un cattolicesimo à la carte, in cui ciascuno sceglie la porzione che preferisce e respinge il piatto che ritiene indigesto[13]».
L’invito a essere «perfetti nell’unità»[14] implica come suffisso l’armonica continuità, affinché «il mondo creda che tu mi ha mandato»[15].
Affermazioni, quelle giovannee, che delineano un inizio e una
continuità incessante, sino alla parusia. Dalla Pentecoste nasce e
prende avvio la storia della Chiesa e cominciano gli “Atti degli
apostoli[16].
La Chiesa è dunque frutto vivo di un inizio che non ha mai avuto fine e
da sempre è missionaria e pellegrina sulla terra. Forse, con
l’espressione «nuova Pentecoste», s’intendeva riferirsi in modo più
accattivante che teologico, o forse meglio poetico-mediatico, non tanto a
una nuova discesa dello Spirito Santo sul Cenacolo, quanto all’opera
incessante sulla Chiesa del Donum Dei altissimi che Gesù ci ha
promesso sino alla fine dei tempi. Perché se la Chiesa non fosse di
fatto governata dallo Spirito Santo di Dio, al presente noi non saremo
qua; saremo solo oggetto di studi antropologici, alla stessa stregua in
cui oggi sono studiate le antiche ed estinte credenze religiose di
egizi, etruschi, greci …
La teologia ha però un proprio
linguaggio, diretto e preciso, basti pensare al problema teologico della
Persona di Gesù che scuote i primi otto secoli di storia della Chiesa,
tra eresie e problemi semantici a non finire tra Oriente e Occidente. E
oggi, mentre ci avviamo sul finire di questo anno 2013, la mancanza di
chiarezza e le affermazioni ambigue sembrano spesso farla da padrone in
seno alla Chiesa, con uno smarrimento da parte dei fedeli cattolici che
non s’era mai visto prima, tanto quanto mai, prima d’oggi, s’erano viste
orde di anti-cattolici militanti e di atei devoti celebrare la liquida
simpatia mediatica della persona umana in sé e fine a sé, anziché il
solido ministero petrino edificato su una roccia che per mistero di
grazia non dovrebbe mai essere scissa dalla persona che la incarna,
posto che il Principe degli Apostoli cessa di essere Simone per
diventare Pietro, la pietra sulla quale il Cristo ha edificato la sua
Chiesa.
Oggi, in che misura al pescatore Simone è
chiaro di essere l’universale pastore Pietro e in che misura
all’universale pastore Pietro è chiaro che non può proseguire a essere
il pescatore Simone perso per le periferie esistenziali dei villaggi dei
pescatori della Giudea?
La buona e sana teologia e per logica
conseguenza il migliore e sano ministero pastorale, non contempla
espressioni estemporanee o cosiddette comunicazioni “a braccio”, stile
“mozioni” da carismatici-animisti o “risonanze” da
neocatecumenali-pentecostali, ma parole chiare e precise, non
circonlocuzioni che possono voler dire tutto ma volendo anche l’esatto
contrario, secondo la logica delle “parole nuove” rivelatasi nel corso
dell’ultimo mezzo secolo tragicamente fallimentare.
A tal proposito è sufficiente ricordare
che il mistero di quel «Verbo che si fece carne» che «era in principio
ed era presso Dio»[17],
era a tal punto grande che non esistevano neppure parole sul
vocabolario per poterlo definire. Per questo abbiamo dovuto creare
anzitutto le parole, prese perlopiù a prestito e modulate dal pensiero
filosofico greco, basti pensare al concetto di ipostasi che indica la
natura umana e la natura divina del Verbo fatto carne che abitano la
stessa persona. Siamo di fronte a un’architettura teologica, a un
impianto di ingegneria costruito al millimetro nel corso dei secoli[18].
E, proprio da questo, nascono certi problemi: taluni filoni dell’ultimo
concilio hanno insinuato diverse ambiguità nell’assisa, poi esplose in
modo virulento nel post concilio, fino a creare l’idea di per sé
ecclesialmente aberrante di ermeneutica della discontinuità, sfociata
infine — e ciò con tutte le più drammatiche ed evidenti conseguenze —
nella vera e propria dittatura del relativismo[19]
di coloro che per alcuni decenni hanno giocato con “parole nuove”. E
oggi, da una cattedra teologica all’altra, alcuni insegnano come
superdogmatica “verità” di “fede” che il Concilio avrebbe rotto con la
precedente tradizione[20].
Quel che poi è peggio e che costoro parlino della “precedente” Chiesa
come se, in tutto e per tutto, fosse veramente un’altra Chiesa …
5. LE ERESIE PEGGIORI COMINCIANO SEMPRE GIOCANDO SULLE PAROLE
… asserire in modo aperto o ambiguo che
la Chiesa del post concilio Vaticano II è un’altra Chiesa rispetto alla
precedente è pura contraddizione teologica in termini, oltre che letale
su altri delicati versanti ecclesiologici, pastorali e formativi.
Procedendo a questo modo si opera una vera e propria corruzione delle
menti dei nostri giovani e dei futuri sacerdoti, prima costretti ad
assimilare queste dottrine ingannevoli e poi obbligati a ripeterle con
le identiche parole attraverso le quali molti dialoganti docenti
“liberal collegiali” esigono sentirsele ripetere in molte università e
atenei pontifici romani e non solo. Salvo recidere di netto le gambe —
in modo naturalmente dialogante e liberal collegiale, s’intende! — a chi
osa non omologarsi alle loro fraseologie ereticheggianti, o peggio a
chi osa non pensarla come loro. Non è certo storia nuova, anzi è noto da
sempre in che misura ultra liberisti o eretici siano per loro intima
natura sprezzanti, aggressivi e coercitivi; in modo particolare quelli
mascherati dietro le velette da sposa del “più dialogo … più
collegialità … più democrazia”. Né mai si dimentichi che le eresie
peggiori cominciano sempre giocando sulle parole[21],
per giungere infine a decostruire o distruggere la fede nelle membra
vive del Popolo di Dio, dopo avere svuotato le parole del loro
significato e averle riempite d’altro. E il parlare ambiguo, oltre ad
essere un non-parlare-teologico, sortisce sempre l’effetto di un parlare
pericoloso, tanto più grave quanto più autorevoli sono le labbra dalle
quali le ambiguità fuoriescono. Facciamo un chiaro esempio a tal
proposito: eliminare dal lessico eucaristico la parola transubstantiatione e sostituirla col termine più socio-accattivante di transignificazione e transfinalizzazione, come insegnano certi pericolosi e mediocri nipotini della Nouvelle Théologie
alla Pontificia Università Gregoriana o presso quel covo di
filo-protestanti che tale notoriamente è il Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo, non è un semplice svecchiamento della metafisica tomista,
ma qualche cosa che porta alla inevitabile allegorizzazione,
all’Eucaristia come mero simbolo, non più al divino mistero della
presenza reale del Cristo vivo e vero.
Chi pretende di oltrepassare la
metafisica deve farlo producendo un altro pensiero che sia di rigore
superiore. San Tommaso d’Aquino può essere anche superato, volendo pure
sostituito, in fondo è solo un santo dottore della Chiesa, non è certo
la parola incarnata di Dio, oltre a non essere esente, come tutti i
mortali, da svariate imperfezioni. Dubito però che questo superamento e
questa sostituzione possano avvenire attraverso l’equivoca filosofia
religiosa[22]
dell’Aquinate dei gesuiti degli anni Sessanta, Karl Rahner, che
pretende di oltrepassare la metafisica classica rischiando nella maggior
parte dei casi di riassumerne, a volte senza averne alcuna coscienza e
profonda preparazione, la confusa caratteristica di fondo, tendente
com’è ad articolare certe sue speculazioni muovendo dalla neo scolastica
decadente con l’uso del metro di Francisco Suarez, che partendo
dall’aristotelismo scolastico tomista elaborò dottrine teologiche e
filosofiche per così dire originali. Di fatto Karl Rahner, geniale, lo è
senza dubbio, sicuro! È il genio della
tuttologia-confuso-teologico-filosofica-sociologica, che come tale
spazia dalla dogmatica alla patrologia alla ecclesiologia alla
scolastica, senza conoscere bene e a fondo le une e le altre, riducendo
tutto a una socio-filosofia religiosa che alcuni si ostinano tutt’oggi a
chiamare: scuola teologica rahneriana. È mezzo secolo che nelle nostre
bocche spesso ricolme d’aria rimestiamo il concetto di “parole nuove”,
dimenticando sempre più e sempre con maggiore pericolosità quella Parola
viva, eterna e senza tempo che nasce dal mistero del Verbo Incarnato. È
Dio ch’è parola vivente, ed è solo Dio che può dare un «cuore nuovo»[23] a noi, non siamo certo noi che possiamo dare un cuore nuovo a Dio con certe nostre frivole “parole nuove”.
Quella che taluni chiamano o che peggio
bollano come “precedente tradizione”, parte dal Concilio di Gerusalemme e
si sviluppa attraverso i secoli fino al Vaticano II, un concilio
pastorale[24]
frutto della continuità teologico-ecclesiale di tutte le esperienze
precedenti. La Chiesa non nasce dalla pastoralità del Vaticano II, meno
che mai dal post concilio dei teologi interpreti che hanno mutato le
proprie elucubrazioni in un vero e proprio super dogma sfociato oggi in
vera e propria dittatura. Dichiarare la rottura e la discontinuità con
la precedente tradizione vuol dire mutare la Chiesa in altro e rompere
l’unione con la continuità ininterrotta del Cenacolo. Come se
d’improvviso lo Spirito Santo discendesse nella sua Chiesa per la prima
volta attorno alla metà del XX secolo, pel sommo gaudio di tutti gli
alti notabili della Nouvelle Théologie, o della New Theology,
della Teologia della Liberazione, della Teologia Sincretista, infine
della Teologia Indigenista che ha mutato la “precedente Chiesa” in una
via di mezzo tra una serva al soldo dei colonizzatori e una pericolosa
nemica.
6 LA TRADIZIONE SONO I PILONI CHE
REGGONO L’ANTICO PONTE CHE UNISCE L’UMANO E IL DIVINO, IL DIVINO E
L’UMANO. I VESCOVI CHE HANNO PARTECIPATO AL SINODO, SI RICONOSCONO NEL
DOCUMENTO FINALE DELLA EVANGELII GAUDIUM?
La “radicale devastazione” che oggi
abbiamo sotto gli occhi nasce dal fatto che invece di “rinnovare” la
Chiesa nel rispetto e nel rafforzamento della tradizione e del dogma,
molti sono andati a intaccarne i delicati equilibri che hanno preso vita
e che si sono poi solidificati a partire dalla prima epoca apostolica,
rafforzandosi attraverso i grandi concili dogmatici e l’opera dei grandi
padri della Chiesa. Con la stagione del post concilio si è aperta la
grande crisi del dogma, ed alle verità divine ed eterne hanno finito col
sostituirsi le dogmatizzazioni dei pensieri umani, perché quando l’uomo
non crede più alle verità fondamentali, finisce per credere in tutto,
lanciandosi allo sbaraglio attraverso parole ambigue nascoste dietro
alle immancabili “parole nuove” dei peggiori arruffapopoli: i falsi
profeti.
La tradizione sono i piloni che reggono
l’antico ponte che unisce l’umano e il divino, il divino e l’umano.
All’epoca che quel ponte fu costruito, appresso ampliato e rafforzato
nel tempo, non esistevano le automobili, si viaggiava a piedi o coi
cavalli. È chiaro che a un certo punto l’antico ponte doveva essere reso
idoneo anche per il transito delle automobili. Purtroppo però, alcuni
“teologi ragazzini”, quelli che discutevano nei bar e nelle osterie di
Roma coi giornalisti sulle strategie da portare nell’assemblea
conciliare, sono andati a intaccare proprio i piloni. E oggi ci
ritroviamo con un ponte pericolante e inagibile, grazie ai vari Giuseppe
Ruggieri e ai vari Andrea Grillo lasciati incoscientemente dai nostri
vescovi a insegnare negli studi teologici, per avvelenare alla radice le
menti dei nostri futuri sacerdoti preposti poi a confondere e
scandalizzare il Popolo di Dio nella dottrina della fede e nella sacra
liturgia, giudicando impietosamente e aggressivamente coloro che si
dichiarano scandalizzati dalle loro parole, dei “cattolici infantili” e
“immaturi” non divenuti ancora dei veri “cristiani adulti” sotto il
vento della nuova Pentecoste grazie alla quale nel XX secolo è nata
finalmente la Chiesa, dopo che per XIX secoli abbiamo solo scherzato.
Non so che cosa intenda fare chi per
alto e ineffabile ministero è chiamato a custodire la fede e a guidare
il gregge, ciò che so è che egli è il ponte, anzi secondo l’etimo di pontem facere, un costruttore di ponti. Il termine di pontefice prende vita nella prima epoca romana dall’antico Pons Sublicius. Così era infatti chiamato il gran sacerdote dell’antica religio[25], pontifex maximus,
che assiso su quel ponte vigilava sui movimenti delle acque e sul volo
degli uccelli, oltre a compiere vari altri riti. Oggi, il nostro Sommo
Pontefice, rischia di ritrovarsi coi cieli sovrastanti il ponte coperti
da stormi d’avvoltoi, ai quali speriamo di tutto cuore che non funga da
involontario e inconsapevole richiamo. A maggior ragione confidiamo in
lui per vedere di nuovo le rondini volare nei cieli e riportare la
primavera di sempre, quella del cenacolo degli apostoli. La sola e vera
primavera nata dallo Spirito Santo di Dio, cominciata in quel cenacolo
apostolico e da allora mai tramontata, malgrado l’impegno, forte e
incessante nei secoli di molti uomini, di far calare il sipario delle
tenebre, ora attraverso “parole nuove” pronunciate sul cadavere disteso
sopra al lettino delle autopsie dell’anatomopatologo, ora con la
“ermeneutica della discontinuità” … Per questo ritengo ragionevole
affermare che dal cenacolo dello Spirito Santo sino alla parusia non è
possibile giungere al «Suo regno che non avrà fine» attraverso la
discontinuità e le ambigue “parole nuove”, specie quelle dei falsi
profeti che “reinventano la Chiesa”, ma solo attraverso quella
continuità perfetta e di quelle parole precise di cui l’uomo, per quanto
fallibile e imperfetto, è chiamato a essere fedele strumento, perché
tempio privilegiato dell’azione di grazia di Dio sin dall’alba dei
tempi.
Questo il motivo per il quale, letta
l’esortazione post sinodale Evangelii Gaudium mi sono rinchiuso nel
silenzio, consapevole di quanto in certi momenti, l’efficacia della
preghiera cristiana che nasce dalla vera fede, giovi molto più alla
Chiesa di quanto non le giovi invece il prendere la rincorsa per andare a
battere la testa sopra a un muro di gomma, mossi da una disperazione
tutta quanta umana e forse anche poco cristiana.
La risposta a questo documento non posso
certo darla io che sono l’ultimo presbitero dell’orbe cattolica,
dovrebbero darla però i vescovi, in particolare coloro che a quel sinodo
hanno partecipato, rispondendo a quesito semplice e ovvio: si
riconoscono, in modo libero e collegiale, nella liquida mancanza di
chiarezza delle parole a tratti ambigue che caratterizzano quel
documento conclusivo che pare ora dire tutto e poco dopo forse il suo
esatto contrario?
Con dolore e smarrimento posso solo dire
che quel documento sembra un assurdo: non si sa a chi parla né che cosa
vuole. Non è né teologia né omiletica ma retorica con non poche punte
di ambiguità. Non si dice “si” e non si dice “no”, si dice che forse
potrebbe essere un po’ no e forse un po’ si. Sembra tutto quanto
dettato da quei teologi progressisti ormai al potere che mirano a
“reinventare la Chiesa” con le loro rovinose “parole nuove”.
E che lo Spirito Santo di Dio assista la sua Chiesa e assista tutti noi suoi servi fedeli e devoti.
Ariel S. Levi di Gualdo [26]