Non mimetizzarsi Lettera pastorale al clero
1967
Ai miei cari Confratelli,
nel 1958, in occasione del diciassettesimo centenario del Martirio di San Cipriano avevo indirizzata
al mio Clero una lettera dal singolare titolo «i complessi di inferiorità». Quella lettera voleva
mettere in guardia contro un difetto purtroppo facile e che gli anni seguenti al 1958 hanno
dimostrato assai diffuso. La lettera aveva una preoccupazione di fondo: concorrere a stabilire
nettamente una linea di distinzione tra noi, uomini votati del tutto a Dio nel servizio dei fratelli e il
gran mondo La linea di distinzione c’é perché l’ha inculcata Nostro Signore Gesù Cristo nel più
grande dei suoi discorsi «Voi siete nel mondo, non siete del mondo» (Giov. 17) e pertanto non può
essere oggetto di dubbio o di discussione. La questione sta nel fatto che le distinzioni o sono fatte
con una linea matematica, la quale non ha estensione e dove solo la più assoluta precisione permette
di non mescolare quello che non va mescolato, o ammettono, tra le due parti, una zona grigia, la
quale può venire invasa e da una parte e dall’altra e dove pertanto possono sorgere con facilità e
danno estremi le confusioni.
Ritengo mio dovere fare il possibile per illuminare ai miei cari Confratelli nel sacerdozio questa
fondamentale distinzione tra noi e il mondo, perché è solo col rispetto di questa distinzione che
saranno sacerdoti puri, onesti, coerenti, rispettabili, efficaci.
Oggi riprendo il discorso del 1958 per rispondere con un argomento diverso alla stessa esigenza di
fondo: distinzione dal mondo.
E l’argomento è la debolezza della mimetizzazione, rispetto al mondo.
Parte Prima: LA MIMETIZZAZIONE
1. Che cosa è
Mimetizzarsi è rendersi uguali, od almeno simili, all’ambiente nel quale si sta.
Vi sono molti animali che hanno questa dote e per essa possono persino cambiare colore in modo
che riesce difficile distinguerli dalla flora o dal terreno in mezzo ai quali stanno Così si difendono,
perché l’eventuale aggressore più facilmente è tratto in inganno sulla loro presenza. In guerra la
mimetizzazione viene largamente usata per far fallire il bersaglio del nemico e per nascondergli la
propria presenza. Si tratta di due casi, nei quali la mimetizzazione non è affatto una debolezza; è
invece, negli animali uno strumento, negli uomini una onesta astuzia per la propria difesa.
Qui non si parla di tale mimetizzazione materiale. Ci si occupa della mimetizzazione morale che
consiste nel prendere atteggiamenti di pensiero, di contegno, di simpatia, di consenso, di imitazione
propri dell’ambiente generale o di un determinato ambiente allo scopo di ottenere determinati
effetti.
La spia, l’evasore, l’ambizioso, il ricattatore, il congiurato, il traditore si mimetizzano in tal senso
quanto possono per carpire, per sfuggire, per riuscire a buon mercato
Non intendendo occuparmi di spie, etc.: coloro ai quali è destinato questo scritto non appartengono
a tali categorie.
I tipi di mimetizzazione sono tanti quanti gli ambienti ai quali ci si vuole assimilare esternamente.
Perché la mimetizzazione è un fatto essenzialmente esterno. Vorrei che si notasse accuratamente
questo, perché è della massima importanza in tutto il nostro presente studio.
Non è mia intenzione perdere tempo per parlare della mimetizzazione specifica rispetto a questo o a
quell’ambiente: parlo della mimetizzazione generica a TUTTO l’ambiente mondano che ci
circonda.
2. Per quale scopo ci si mimetizza
La mimetizzazione, che è sempre un fatto istintivo negli animali, è invece negli uomini un fatto
voluto, anche se non si possono escludere piccoli margini in cui opera la suggestione o la
imitazione. Ed è un fatto voluto perché ha uno scopo. Vediamo gli scopi più comuni per i quali ci si
mimetizza. Gli scopi principali per cui moralmente ci si mimetizza sono tre: la paura, la difesa, la
conquista. Si tratta di tre scopi che possono rifrangersi in molti modi. Vediamo di discorrerne
partitamente.
La PAURA. Essa fino ad un certo limite fa parte della natura umana, per il solo fatto che la natura
umana è sotto taluni aspetti MENO FORTE della natura inanimata od anche solo perché è in
determinati individui meno forte di altri individui della stessa specie. E’ comprensibile sempre e,
spesso, è irreprensibile. Infatti le carature diverse, i pericoli incombenti, l’istinto di conservazione
giustificano il timore, il senso di fuga dei quali è costituita la «paura». Non si può imputare in via
generale e fino ad un certo punto, quasi fosse colpa, l’avere naturalmente paura. Tanto più che
spessissimo la paura è solo una forma di patologia nervosa.
La questione morale, quella per cui si pone il dovere di reagire alla paura, distruggendone il dettame
sorge ad un certo punto. Sorge quando la intelligenza avverte che non è giustificata od è esagerata o
non consentanea alla personale dignità, oppure quando avverte che la stessa paura spinge a
compiere il male o a fuggire un dovere pur sempre incombente, ad onta della paura. Ricordo la
paura che incutevano i bombardamenti aerei; non si trattava davvero di paura colpevole. Ma quando
si fosse trattato di un sacerdote obbligato o per giustizia o per carità a soccorrere i morenti, la paura
che avesse immobilizzato, in quanto stornava da un sacrosanto dovere, era obiettivamente parlando
certa fonte di colpa. Nessuno è obbligato, salvo il caso di carità, di giustizia, di ufficio o di bene
comune a notificare le malefatte del prossimo; ma quando la giustizia stretta o il dovere certo
obbligassero a parlare e la paura facesse tacere, quella paura diventerebbe colpevole e forse
ignominiosa e traditrice. La paura anche quando è scusata in certi limiti dalla umana condizione non
è una colpa, ma non è neppure un vanto: è solo una espressione piuttosto umiliante di limiti e di
debolezze. Sicché, anche se fino ad un certo punto non è un male, non è mai un onore. La
educazione che si dà ai ragazzi, deve tendere tra l’altro a diminuire in loro il margine della naturale
paura, attrezzandoli invece alle manifestazioni di coraggio. La paura per cui ci si mimetizza potrà
talvolta ed in talune circostanze essere ammessa, ma non sarà mai il motivo per una medaglia al
valore. Va considerata come una ipoteca che il coraggio deve decurtare. In molti casi è solo una
penosa tentazione da vincere.
La DIFESA può essere spesso mossa o richiesta dalla paura, ma non sempre. Infatti essa è solo un
atto contrario ad un altro atto che può venir considerato aggressivo. La difesa purché giusta è lecita.
Ma la difesa di fronte al pericolo diventa ingiusta se si spinge — posto che non si tratti di sciocca
paura — fino a contenere un coraggio doveroso, una azione di rischio necessaria. Se si dovesse
parlare altrimenti della difesa, non sarebbero mai esistiti uomini che hanno tenuto con sacrificio il
loro posto, apologisti che hanno sfidato l’errore, intrepidi che si sono opposti ai cattivi eventi,
martiri che hanno versato il sangue.
Non c’è dunque alcun dubbio che l’istinto della difesa, oltre un certo limite non autorizza
moralmente a mimetizzarsi.
Tanto meno autorizza quando il pericolo in effetti non c’è o non è dal punto di vista del danno,
valutabile.
Si tenga presente che «mimetizzarsi» è atto positivo, non è atto meramente negativo, come tacere e
non essere presente. Neppure il tacere e l’assenza diventano leciti quando esiste un positivo dovere
di parlare e di mostrarsi. Come di fatto molte volte esiste. I pericoli talvolta debbono essere fuggiti,
talvolta possono essere fuggiti, talvolta debbono essere affrontati.
La CONQUISTA è in materia il fatto più complesso. Ha molte specie e sottospecie.
Ci si può mimetizzare per pigrizia: in realtà l’«esser diverso» può esporre fastidiosamente agli
sguardi altrui, ai commenti malevoli, alle reazioni. Subire tutto questo diventa «fatica» ed allora ci
si allinea colla massa, per non avere quei disturbi. La pigrizia è un difetto e tutto quello che si fa per
pigrizia, ordinariamente, non diventa virtù. E’ solo la ignobile conquista della altrui benevolenza, se
non — meno nobilmente — della altrui tolleranza. Si tratta dell’angolo d’ombra in cui si rifugiano
tutti i deboli.
Il conformismo, descritto in quanto s’è detto fin qui, è una vile captatio benevolentiae ed è la forma
meno onorevole di risolvere i problemi posti dalla umana convivenza, tanto più che non ha
assolutamente alcuna lontana parentela colla obbedienza, col rispetto, colla moderazione e colla
pazienza. Esso — il che è caratteristico del mimetizzarsi — cancella la personalità propria per
simulare quella altrui.
Ci si mimetizza per ingannare e l’inganno è strumento di una conquista, ottenuta ad indegno prezzo.
Ci si mimetizza per euforia, per tifo, per ammirazione, per concorrenza, per stupidità od almeno per
errati giudizi sul valore altrui. In tal caso l’obiettivo è la compartecipazione di quanto s’esalta o si
ammira, la conquista di un posto al sole, un mettersi sottovento. Spesso è solo vacua imitazione.
Non sempre tutto questo comincia da una colpa, ma ben difficilmente potrà salvarsi tra le cose
degne e nobili. Ricordo quand’ero bambino un mio compagno che si piccava di imitare quanto
poteva una smorfia caratteristica di un personaggio illustre. Non c’era nulla di male in fondo, ma
noi si rideva ed anche chi aveva quel vezzo, capì e se lo levò.
Ci si mimetizza per acquistare popolarità. Bisogna dire che la popolarità costituisce uno dei difetti
più diffusi e delle debolezze più evidenti del nostro tempo. Il mio scopo non è quello di fare dello
spirito, anche se qui lo potrei fare, a spese però altrui.
La popolarità in se stessa è una buona cosa, ma la sua ricerca generalmente deforma, la sua fame
ignobilmente contorce. E il pubblico si diverte.
Ci si mimetizza per conquistarsi protezioni, simpatie, spinte di carriera e di affari, allori e
preminenze. E’ un modo per farsi portare in braccio anche da grandi.
Si potrebbe continuare.
Concludendo si può affermare che non sempre il mimetizzarsi costituisce una colpa, ma che oltre un
certo limite, a seconda della moralità delle cause e degli scopi può diventare tale. Anzi ha estrema
facilità a diventare tale. Ed è per questo motivo che ne esce contraffatta la sincerità della
convivenza civile.
3. Il contagio della mimetizzazione
La mimetizzazione passa dall’individuo all’ambiente ristretto, da questo alla massa con facilità
estrema. Si tratta di un contagio che non è solo spirituale, perché scaturisce anche dalla suggestione,
dal fatuo entusiasmo, oltreché da paura, dal calcolo di conquista, dalla difesa, dall’istinto di
conservazione e di imitazione, dalla illusione di raggiungere qualche scopo con minore spesa.
L’importante è che dilaga. I più grandi fatti politici trascinatori ed effimeri di questo secolo hanno
data la documentazione di questo dilagare: non furono fenomeni di ragione, ma fenomeni di
contagio.
Taluni fatti che ancor oggi tengono in sospeso la normalizzazione sociale del mondo in molti paesi,
sono pur essi fenomeni del contagio di cui si parla, almeno in parte. Nella Chiesa stessa talune
vicende meno brillanti contro le quali si leva la voce del Sommo Pontefice sono fenomeni di
contagio dilagante.
Il dilagare ha le sue cause. Eccone alcune
— Il monopolio della intelligenza. La parola monopolio è sempre deteriore, anche quando indica un
fatto reso legittimo da necessità pubblica. Ma quando taluni uomini riescono a creare la impressione
di detenere essi il lume della ragione, della scienza, possono creare un tale timore in quelli che non
siedono a posizioni accademiche da imprimere addirittura i movimenti del panico Nessuno vorrebbe
passare per stupido: è solo questione di fargli credere che sarebbe stimato tale, quando non
accettasse e professasse una determinata idea
— Il momento della fortuna. Chi ha denaro, può chiederne a chiunque e tutti gliene daranno. La
fortuna non ha solo la provincia del danaro: le sue province sono molte. Il convincimento che
qualcosa è fortunato scatena ben più che una valanga o una alluvione: tutto frana da quella parte!
— La sistemazione della quiete. Molti prendono le idee di un partito, ne assumono movenze,
entusiasmi, modulazioni, furori unicamente per quietare. Questa è certamente la forma più ipocrita
della mimetizzazione, ma, intanto, cosa fatta, capo ha.
Nel tempo che segue il Concilio di Rimini qualcuno poté scrivere che il mondo si meravigliò di
essere ariano. La quiescenza di parecchi vescovi, la non sempre chiara e lineare condotta di Liberio,
assecondò la illusione. Il mondo non era affatto ariano. Ma a disincantarlo occorsero uomini della
tempra di Ambrogio e di Ilario. La sintonia colla «massa», questa spaventosa cosa che poco
conserva di umano, appare sempre una prima cinta protettiva contro quello che può succedere.
Ecco come dilagano le mimetizzazioni. I pochi che vi resistono non hanno molto da scegliere: o
schiantati, o infangati, o soppressi. Nella miglior ipotesi sono ignorati.
C’è una ragione profonda in questa capacità di dilagare della mimetizzazione ed è che il bagliore
della intelligenza vera o falsa, l’incanto della fortuna solida od effimera, il condizionamento della
propria quiete hanno per sé una tale capacità pubblicitaria, un tale montaggio di ricchezza scenica,
una tale tecnica di mezzi di comunicazione da mozzare il respiro alla gente. La quale in gran parte,
nella commedia del mondo, fa la parte di spettatore di cui si eccitano, orchestrano e lanciano tutti i
sentimenti.
Il guaio grosso si ha quando queste contaminazioni del mondo, compaiono anche nella Chiesa.
C’è tuttavia un motivo di consolazione.
Molti che paiono perversi, sono soltanto mimetizzati. Smontarli diventa più facile; spesso basta
cambi temperatura o stagione e tutto è finito. Coi guai umani, in fin dei conti camminano anche e
sempre occulte facilitanti risorse!
Parte Seconda: LE MIMETIZZAZIONI
Noi scriviamo per il Clero e pertanto ci occupiamo solo delle mimetizzazioni, che lo potrebbero
tentare e che di fatto talvolta lo tentano. Leggendoci, potrà anche accadere che qualcuno trovi un
ritratto a sé rassomigliante.
E’ opportuno dire subito con chiarezza quale è il termine, rispetto al quale può sorgere la tentazione
di mimetizzarsi. E’ uno solo: il mondo con — naturalmente — i suoi diversi rappresentanti. E ci
interessa solo questo, perché mimetizzarsi col mondo, significa almeno qualcosa, allontanarsi da
Gesù Cristo. Niente altro.
1. La mimetizzazione intellettuale
Il mondo ostenta un pensiero, anche se questo spesso è solo fantasia. In un pensiero si enunciano
principi, criteri, metodi. Sarebbe una impresa pazzesca recensire qui il pensiero del «mondo», anche
perché i più se lo creano, badando a diversificarsi dagli altri e non avendo alcuna preoccupazione
della verità. Tuttavia in questa sinfonia dissonante e confusa vi sono alcuni punti di convenienza
abbastanza generale e, quando uno si mimetizza col pensiero del mondo, in realtà bada a
mimetizzarsi con quelli. Essi sono: la propria assoluta libertà di fronte a qualsiasi argomento di
autorità e la propria assoluta autonomia di fronte a chiunque, la indipendenza dinnanzi ad ogni
realtà interpretata pertanto relativisticamente, il credito fatto a ciò che piace indipendentemente da
ogni altra considerazione, la capacità di trasferire a qualunque linea comoda i limiti della morale.
Questi punti di orientamento intellettuale mondano, a svolgerli, contengono tutte le apostasie
possibili e tutte le negazioni più audaci ed empie.
Non sappiamo se per fortuna o per disgrazia, quasi nessuno si prende la briga di svolgere fino in
fondo, logicamente, quei punti e così molti possono credere, abbracciandoli e adottandoli in forma
più o meno cosciente, di non avere conti gravi, aperti colla propria Fede. E’ questo «ti vedo e non ti
vedo» che permette entri di soppiatto il demone della mimetizzazione.
Entra di fatto.
Taluni hanno ridotto tutto il Cristianesimo alla «salvezza» e questo è in un certo senso vero. Ma lo
fanno in modo da spingere verso la discussione, la critica, lo svanimento molti altri punti che fanno
parte del patrimonio, non meno del concetto della salvezza. E qui siamo fuori della verità e della
stessa salvezza. Che è successo? E’ successo questo. Un protestante, con singolare arbitrio, volle
ridurre tutto al nucleo della «salvezza» lasciando ad una crociata di demitizzazione se non tutto il
resto, buona parte. Trovò chi gli fece eco, ebbe illustri agenti anche in campo cattolico, fece rumore
e col rumore occupò la piazza. Più d’uno di quelli che vogliono passare per intelligenti, visti gli
affari positivi di Bultmann hanno cominciato a mimarlo. Nelle retrovie, moltissimi che non sanno
nulla di Bultmann, si sono messi a demitizzare qualcosa, comechessia, mimando i mimetizzatori
dello stesso Bultmann.
Nella interpretazione della Sacra Scrittura, pressoché tutti i giorni, in qualche Rivista o in
pubblicazioni specifiche, si sentono opinioni che, chi conosce Tradizione e Magistero, non riesce
affatto a conciliare con essi. Si tratta di mimare quelli che stanno sulla stessa sponda di Bultmann.
Una sezione del mondo, del gran mondo, si è spostata in chiave editoriale sulla sponda delle scienze
sacre ed in genere delle pubblicazioni religiose, che sono più o meno intinte degli effati sopra
ricordati. E’ credere di stare nel plotone degli stupidi, qualora non si segua quello che in tal modo si
stampa e si divulga
La operazione che in sede culturale moderna da molti si conduce, con astuta finezza, separando in
arte l’elemento formale dalla sostanza delle cose rappresentate o del pensiero espresso, va
insinuandosi per una incosciente mimetizzazione in talune manifestazioni di casa nostra e se ne
sono sentiti gli echi dovunque.
Il tacere che molti predicatori, catechisti — per non parlare di scrittori — fanno del peccato, della
morte, del giudizio, dell’inferno e dello stesso paradiso si riduce ad una mimetizzazione mondana: il
mondo infatti di queste cose non vuol sentire parlare. E si arriva per vigliaccheria e stupidità a
doversi far veder ridere, quando altri ne parla!
Il punto dove la mimetizazione intellettuale tocca il suo apice è in sede di slogans. Ormai tutti i
settori, quello teologico e religioso compresi, ne hanno un buon catalogo; ad usarlo si è dispensati
dall’aver approfondito qualunque scienza mentre si può tentare con varia fortuna di far credere che
se ne è edotti e profondi. Una parte degli slogans sono equivoci, anche se sono seducenti, purché
facciano parte del bagaglio alla moda e costituiscano la tessera necessaria ad essere accolti in taluni
ambienti, senza esserne sbranati
Vi preghiamo di osservare bene questa immensa folla che corre dietro agli slogans, li dice, li ripete,
li recita persino con compunzione, convinta di dover fare così per salvare la propria reputazione. In
verità l’accostamento più grande, gli ordigni intellettuali, non lo fanno né alla scienza né al
pensiero, ma solo agli slogans. Ed a livello degli slogans si ha la più miserevole forma della
mimetizzazione inteliettuale.
E’ sufficiente che qualche mezzo di comunicazione sociale, di quelli che parlano forte, indichi
qualcosa come acquisito alla repubblica della gente fortunata, perché non si resista più alla
tentazione di ripetere senza fine, aggiungendovi persino l’aria del convincimento.
Una forma diffusa di mimetizzazione intellettuale sta nel scegliere qualche gruppo, qualche
pubblicazione, qualche persona ed attribuire ai medesimi la incontrastata, supina, indiscutibile
direzione della propria testa. Così accade la meno costosa, ma anche più ignobile forma di
mimetizzazione indiretta: non si guarda agli esemplari, ma solo agli specchi che li riflettono.
Per essa tutto quello che è del mondo, in contrasto con Cristo, colla Chiesa, coi fratelli può essere
assorbito, sì da esserne ridotti impoveriti e stanchi su quella sponda dove non si trova più neppure la
Fede.
2. La mimetizzazione morale
Le depravazioni morali hanno sempre dei precedenti intellettuali, perché hanno la pretesa di
giustificarsi con qualche appropriata formula. Tuttavia può accadere ed accade che ci si adegui ad
un determinato costume, senza affatto ricercarne i precedenti filosofici: comodità, conformismo e
paura li possono egregiamente sostituire. Pertanto, almeno per qualche tempo, ci si può mimetizzare
con un costume improprio ed anche immorale, senza avere la coscienza di fare una scelta di
dottrina. In altri termini ci si può mimetizzare moralmente, senza perdere la Fede. Ma ci si
mimetizza.
Il mondo ha abolito sostanzialmente la modestia e il pudore. Ne salva alcuni limiti legali e lo fa con
aria di sufficienza, coprendo di non sempre benevola compassione chi crede ancora alla modestia e
al pudore. Non ha importanza che levi alte grida dinnanzi a fatti sgradevoli di cronaca ed a crimini
che sono la conseguenza dell’oltraggio sistematico recato alla modestia ed al pudore. E’
perfettamente illogico, il mondo, e questo dovrebbe bastare per giudicarlo siccome merita; ma esso
probabilmente si gloria anche della sua illogicità. Il suo contegno, logico o no, ha presa su coloro
che non tollerano bene di essere esclusi dalla gran sala da ballo universale. Essi, per ottenervi un
posticino ed una qualche considerazione, cercano di apparire ormai spogli a tre quarti di ogni
rispetto alla modestia ed al pudore. Si sporgono, si pavoneggiano di libertà, di superamento delle
viete formule, disdegnano i complessi di colpa (così li chiamano), cercano di farsi sorprendere a
ridere su cose serie, fanno ogni sforzo possibile per piacere ai libertini, accaparrarne la nobile stima
e giungono ad iscrivere tutto questo nei temi di «pastorale moderna».
No! Non è pastorale moderna è solo mimetizzazione.
La giustizia sta morendo ed il processo per farla morire in eutanasia è il seguente. Si trasferisce il
peso della giustizia alla cosiddetta giustizia sociale (giustizia sociale è in gergo di fatto, non
evidentemente di diritto, quella che debbono osservare gli «altri»). Non si parla più di giustizia
commutativa, di giustizia distributiva, di giustizia legale, le quali sono troppo minuziose e cogenti
ed il cui onere non si può bellamente trasferire tutto e solo agli «altri». Ci si arrangia. Accadono
cose talvolta, dalle quali si deve dedurre che la mimetizzazione alligna anche qui.
Canone della azione per il mondo è che bisogna cambiare, cambiare sempre, cambiare tutto. Ciò
perché tutto è in trasformazione, perché si va sulla luna, ecc. Questo canone non viene
mondanamente soppesato come morale ed immorale: appartiene semplicemente ad un’altra
categoria, nella quale la morale non entra più. «Cambiare» ha sapore neutro ed è bene lasciarlo così
senza complicarne i ritmi di evoluzione con barbose questioni morali. Ed invece l’errore è proprio
qui, perché anche il «cambiare» per quanto concerne gli uomini è un atto umano e pertanto è
soggetto alla morale; potrà essere buono, potrà essere cattivo a seconda di ben noti criteri, mai
contenuti nel verbo cambiare e che bisogna cercare fuori di esso.
L’effetto psicologico della situazione del mito delle mutazioni è questo: poiché pare che dispensi
dalle considerazioni morali (come abbiamo detto sopra), dispensa dai limiti, dai ragionamenti, dal
buon senso, dalla misura. E così si è alla rotta di collo.
Le condizioni, offerte dal mito della mutazione continua, sono così tenui e generose ad un tempo,
che la mimetizzazione diviene facilissima e può snodarsi fino ad un certo punto fuori di ogni
rilevazione di coscienza.
Spesso quando la coscienza riprende a funzionare è troppo tardi. Taluni nostri confratelli (non qui)
applicando questo modulo hanno gia eliminati i Santi dalle Chiese, alcuni osano eliminare la Santa
Vergine, non si sa che cosa riserberanno a Cristo stesso nella Eucaristia. Non che ce l’abbiano coi
Santi, la Vergine e l’Eucaristia, ma bisogna cambiare e mimetizzarsi quanto prima come i
camaleonti. E’ difficile dire dove, per taluni di essi, finirà questa storia. Principiis obsta...
Così un margine che pare essere fuori della morale, diventa immoralità.
3. La mimetizzazione del contegno
Avremmo dovuto parlarne per primo, dato che è la porta di tutte le mimetizzazioni Se ne parla in
fine perché di tutte le mimetizzazioni questa é la più stupida.
Essa fa adeguarsi nel vestito, nella tenuta, nella parlata, nel gesto, nella disinvoltura.
A questo complesso recitativo il mondo dà una importanza estrema, con esso avvolge tutto, con
esso cerca di fissare i lineamenti nel volto di tutto. Poche porte resistono a questo complesso,
quando la parte è sostenuta bene. Molte doti inesistenti sono ampiamente sostituite da questo
complesso. Se c’è qualche dote fisica da esibire, il complesso diventa addirittura esaltante.
La tentazione di mimetizzarsi diventa consistente, anche perché l’appello fuori posto ad una astratta
sostanza delle cose, facilita il libertinaggio di tutte le forme. Così più di una volta si scopre che il
punto di riferimento non sono i Santi Apostoli, etc, ma i divi o i fortunati del cinema e della
televisione. Si crede anche che questo faccia colpo sui giovani, dal punto di vista «pastorale». I
giovani sono più profondi di quanto non si creda!
Il vestito è importante: l’abito in buona parte fa il monaco. Le recenti disposizioni della Conferenza
Episcopale Italiana hanno ammesso dei casi nei quali gli ecclesiastici possono usare il clergyman,
pur avvertendo che l’abito normale è la talare. Quello che ci interessa è che nessuno metta il
clergyman perché vuol mimetizzarsi. Sarebbe una vergogna. Non neghiamo che possano in taluni
casi esistere delle buone ragioni per usare il clergyman; neghiamo nella forma più chiara ed aperta
che il volere scomparire e mimetizzarsi possa essere ordinariamente una ragione decorosa e
pastorale.
Esiste un uso delle finezze mondane accessorie al vestito, alla persona, che può capirsi anche se non
sempre scusarsi, della necessità di fare un certo colpo sugli altri. Neghiamo che il fare certo colpo
sugli altri entri nella dignità e santità sacerdotale. Pertanto l’uso di certe finezze e comodità serve
solo a discriminare i sacerdoti tra loro e a fondare un certo giudizio sulla loro vera consistenza.
Tuttavia possono esistere larghe infiltrazioni di mimetizzazione in quel senso e non sono affatto
gaudiose. La gente di mondo ha buon fiuto: è spesso felice di trovare un compagno al proprio
livello, ma quando trova un compagno al proprio livello non trova mai un sacerdote, buono per
l’anima sua. Anche se tutto può servire alla Provvidenza...
La disinvoltura l’abbiamo elencata tra gli strumenti del contegno. Non sarebbe giusto disprezzare a
priori la disinvoltura, anche perché ve n’è una sana e ve n’è una malata. La prima consiste nel
superare pienamente le impressioni o le inibizioni che vengono indite dal di fuori, in modo da
mantenere la propria iniziativa, la propria libertà, la propria scioltezza disincantata, semplice,
sincera, conforme alla tipologia del nostro temperamento e agli ordini del proprio dovere. La
seconda è una recitazione artificiale, imbastita da qualcuno dei peggiori difetti: superbia,
presunzione, irriverenza, esagerazioni... La prima è rigorosamente personale, la seconda può essere
corale, di moda, stereotipia di determinati ambienti, codice di compagnie o di branco e magari di
peggio. La prima vince veramente la timidezza e generalmente si accoppia al coraggio; la seconda
ha maggior parentela colla paura e generalmente fa da schermo ad una timidezza profonda.
La seconda alletta alla mimetizzazione, perché più facile, meno impegnativa e dagli effetti più
roboanti.
CONCLUSIONE
Questa Nostra lettera poteva essere assai lunga. L’abbiamo contenuta nei discreti limiti di una
segnalazione ragionata. Noi dobbiamo contare sempre e soprattutto sulla grazia di Dio e sui mezzi
di questa. Però non dobbiamo dimenticare che sorta di carica psicologica sia per gli altri il fatto di
essere veramente, serenamente, intimamente liberi dal mondo, al tutto indipendenti dalle sue
pecche, dalle sue debolezze e dalle sue mode. Soprattutto dai suoi miti. Nel momento in cui da
taluni si pronuncia la parola blasfema «demitizzazione del cristianesimo», dobbiamo fortemente
affermare che è il mondo ad essere coperto di miti. Può essere ne parliamo un’altra volta.
Il resistere a mimetizzarsi col mondo significa, salvare il sacerdozio. La mimetizzazione costituisce
il vero contraddittorio della pastorale, la sua morte, magari lenta e per gli incoscienti indolore, ma
morte. Salviamo noi, per salvare cose più sacre e più grandi di noi.
+ Giuseppe Card. Siri
Chiese sorelle e chiesa una
1976
Per fare dell'ecumenismo serio bisogna conoscere bene la teologia. Uscendo da questa, diventano
facili tutte le deformazioni o distruzioni, iniziate con termini che possono anche in un primo
momento non destare orrore. L'ecumenismo è una cosa troppo seria per lasciarla a coloro che ne
fanno solamente una «professione».
Questo va premesso per occuparci, come stiamo per fare, delle Chiese «sorelle». La espressione
sarebbe innocua quando il sottofondo dottrinale fosse esatto, ma al punto a cui siamo non è più
innocua e bisogna farvi attenzione.
Alcuni teologi che si occupano dell'ecumenismo, nei confronti delle Chiese orientali, tendono a dare
alla espressione «Chiese sorelle» un senso «alternativo», ossia opposto al concetto di «Unità della
Chiesa» come è inteso tanto in Oriente che in Occidente.
Ecco subito una conseguenza (aberrante quanto il suo principio) di tale alternativa, ossia opposta al
concetto di unità della Chiesa. Questi teologi vanno sostenendo che bisognerebbe cominciare a
mettere tra parentesi come non veramente ecumenici tutti i Concili dopo il VII (Niceno II). La tesi
sarebbe questa: «I dogmi possono essere proclamati solo dalla «Chiesa Una», ossia tanto dalle
chiese occidentali che orientali». Ed ecco la spiegazione: «I dogmi proclamati solo dalla chiesa
occidentale debbono essere riconosciuti per quello che sono, delle definizioni, che sono state
enunciate senza la partecipazione delle chiese sorelle d'Oriente e che debbono essere accettati da un
lato dai cattolici dell'Occidente e dall'altro debbono essere ripensati alla luce dello sviluppo e della
tradizione propria dell'Oriente».
Dunque: dogmi non definitivi, se vanno ripensati.
Dunque: ammissione di «riforma» dei medesimi, insomma le braccia alla buona volontà, ma non
all'errore.
Pertanto, accettare una «carità» che supponga tout court o sostituisca la unità nella Fede è
incompatibile con lo stesso concetto di «depositum fidei» e di «Rivelazione», pur comune alla
Chiesa Cattolica e alle Chiese orientali. Si avrebbe una ecclesiologia non solo spuria ma fuori del
chiaro pensiero del Salvatore, il quale domandò la Fede come inizio di tutto ed indicò quale Fede la
accettazione delle verità da Lui proclamate con tutte le loro conseguenze.
La Unità della Chiesa si attua solo nella piena accettazione del «depositum fìdei»; il rapporto da
«sorelle» non è assolutamente sufficiente. La Unità della Chiesa non è mai venuta meno, anche
dopo il doloroso scisma, perché la Unità Sua viene dall'interno e non dal fatto che tutti i rami Le
siano debitamente inseriti; viene da Pietro, dalla comunione con Lui, dall'esercizio di un Magistero
che non esiste fuori di questa Comunione, viene dalle garanzie date da Cristo soltanto alla «roccia».
I rami staccati restano oggetto di infinito amore, di paziente ed operosa attesa, ma il cessare di
essere «staccati» dipenderà da loro nella grazia di Dio. La verità non si sposta, la si raggiunge dove
sta.
I Concili fin qui tenuti nella legittima forma e ritenuti Ecumenici, sono realmente Ecumenici,
valevoli e durevoli come Ecumenici, senza bisogno di confronti aggiuntivi, di consensi o conferme
susseguenti, senza esigenze di accettazione da parte di chi è separato dalla Roccia della Unità:
l'albero vive senza bisogno di ricevere alcunché dai rami che sono stati recisi.
L'Ecumenismo non lo si fa andando a metà del ponte, ma piuttosto costruendo ponti, tanti ponti in
amorevole fatica, restando fermi sulla riva giusta.
(da «Renovatio», XI (1976), fasc. 3, 277-278)
Il termine «progressismo»
1975
Nota per il Clero
Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole
e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica,
che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si
coniano parole.
Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si
lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati,
capiti, eventualmente smascherati.
Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele
bene, per evitare una sorte ingloriosa.
Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio
operato: «progressismo».
Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un
termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non
bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno
specchio perché ognuno ci si guardi.
1. Essere indipendenti dalla logica Teologica
Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale
indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le
conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica Teologica»?
Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare
ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della
«logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al
magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica
interpretazione sia della Scrittura che della Divina Tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse
consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola
e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far
dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di
quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra
gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione
filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare
l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la
dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.
La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della
logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera
della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del Magistero
Ecclesiastico!
Il Magistero Ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere
nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano
consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione
rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera
di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella
affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico,
potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.
Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del Magistero ecclesiastico costituiscono con lo
stesso la «LOGICA» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali
contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare
che sono espressamente condannati nella enciclica «Pascendi» di S. Pio X. nonché nel suo Decreto
«Lamentabili»; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici
della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultman, sentono con
indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della
rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.
Naturalmente trattati senza freno i Principi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina
ecclesiastica.
Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la
verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in
breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non
si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse
accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa —
questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si
fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le
altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di varie lingue, dei quali fu pieno l’aer e
che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e
l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della
certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se
non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di
Teologia, il tedesco Padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre con ragione: «Credo Deo Revelanti et
non theologo opinanti!».
2. Il «sociologismo»
Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non
sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle
azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del
benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo
mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di
beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi
dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi
nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura
della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male
favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale o di rosso sia
sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia
insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione
materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse
seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi,
forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura
persino delle parole!
Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per
fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La
sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana
della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente
smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo
applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via
brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono
arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per
portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe,
distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non
piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza
eterna?
3. La nuova storiografia
Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se
giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero San Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi
«cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.
La parte maggiore della produzione — ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni — pare
obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai, che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa — detta per l’occasione postcostantiniana — avrebbe fatto con continui voltafaccia,
alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri
ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati
dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1972 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante
pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di
Cristo. Questa conclusione — tutti lo vedono — costituisce il fondamento per distruggere il più
possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro,
Martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
— le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre
gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
— il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla
obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli
hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.
Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono
rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di
distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la
indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi
galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha
difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, chi ha imposto ai renitenti la disciplina
ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!
Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la
vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe,
come se queste non potessero mai essere chiuse.
È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!
4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti. È questo un caposaldo d’obbligo del
progressismo.
Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia
del progressismo ecclesiastico moderno.
Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano
secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto
felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della Divina Tradizione ed avessero
spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo. Quei due interventi, consci o no di portare
l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli
avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno
fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era
entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli
«Imprimatur». La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata
comune. Eccone i punti.
— La filologia, la archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum
delphini), ma SOPRATTUTTO le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai
quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le
ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce
il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il
Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle
quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad
un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può
essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture,
comparata con le Scritture e con la Divina Tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal
Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama
«PROGRESSO», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è
ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione
della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio.
Niente di più logico e di più ovvio.
Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è
in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta
riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi
ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di
Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado
di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di
assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole
«sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome
di «progressismo».
5. Le allegre «teologie»
Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro,
dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di
Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate
di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi
caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.
Queste sono vere «Teologie», anzitutto?
È «Teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle Fonti Teologiche. Quando le
affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo
Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste
Teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo
protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente
proprio.
In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è
nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste
teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.
— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e
pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto
oggettivo e permanente.
— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno
secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo,
derivando da un principio messo dal cristianissimo e devoto Mounier, di fatto si ispira al marxismo,
del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi
più o meno stanchi assertori.
Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce
potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere
— con altre cose — una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale
apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che
cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie Teologie delle quali
abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al
tutto insoddisfatti.
Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e
ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
E questo è grave. Infatti.
La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della Rivelazione Divina e, senza forzature o
deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme
pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente
di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la
logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti.
Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che
documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi princìpi del buon senso umano,
nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la
parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non
aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha
accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di
calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.
Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non
permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode
transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni»
estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla
fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che
possono dare ansa al genio di molti Santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.
6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie.
Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti
i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a
quello il Messaggio Cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della
Rivelazione divina.
Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale
nessuna persona colta crederà più.
Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto
di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, si da permettere sempre
una tempestiva ritirata strategica.
Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli
del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o
male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i
«placita» di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro
tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono,
comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che
cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è
bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.
La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo
cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è
tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto.
Non eresia, ma anche apostasia!
Con tutto questo non si esclude affatto, che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero
possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto
accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto
meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del
proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela
troppo vergognosa per gloriarsene.
7. Il rifiuto della apologetica.
Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende
logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando
smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste
verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede
devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa
(Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione
di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare
degli elementi di prova.
Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna,
quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una
dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa
onesta capacità che il Vangelo di Matteo — come gli altri — ha di farsi precedere dalla più rigorosa
documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo
a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora
abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo
sapeva.
Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da
studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del
modernismo latente sotto la cenere.
Il silenzio in fatto di Apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi
ritiene sempre necessaria la Apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della
mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà
che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della Apologetica ne è la
manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può
venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?
8. La riabilitazione degli eretici.
Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è
altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati
difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge
dalle ceneri con l’aria di dire: «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di
autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati
abitualmente al posto di Sant’Agostino e di San Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti
quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.
Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi
persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini
che la conducono fa al tutto difetto.
Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del
Magistero Ecclesiastico, per colpire il Magistero Ecclesiastico; si magnificano i distruttori della
disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed
ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici.
Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto
a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.
Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a
modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli
che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri
comodi. I peggiori!
Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro
e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso
spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.
9. L’antigiuridicismo.
Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano
e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo
loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite
spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone per bene
abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e
fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e
regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare
qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile.
Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole
più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice
variazione lessicale.
Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato
anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo
è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si
scarica sulla «base».
Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al
giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una
debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei
gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo,
anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita
sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della
violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?
Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice
di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non
era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino
ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una
«Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una
mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E
pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina»
libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio Catechismo dalle idee
chiare e precise!
10. La crociata antitrionfalistica.
Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla
quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.
L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento.
Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si
vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del
suo dovere, fa del trionfalismo.
La Fede, i Sacramenti, il Divin Sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi.
Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli
occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la
maestà di Dio, la infinita importanza del Santo Sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del
trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni
liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della
vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che
disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione
sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla
Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente
deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta. Chi ha pronunciato per primo la disgraziata
parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti
psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di
gusti.
Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un
termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel
conformismo col quale si accettano e osservano — non le Leggi liturgiche emesse dalla legittima
Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di
qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le
bande dei suonatori.
11. La indisciplina endemica.
Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori
dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo
sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi
ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella
successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno
preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica
di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A
ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è
aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine
ecclesiastica del Clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative
culturali innumerevoli.
Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione
permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore
ormai confinato nelle nebbie.
Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in
grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito.
Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da
Gesù Cristo.
Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli
stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è
buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il
catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di
Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si
irride o la si tratta come se fosse risibile, la Santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è
progresso!
12. La bassa quota.
Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il
termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente,
perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un
modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.
Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico
descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno
tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va
da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo
quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
Nel Clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da
crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che
l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi
porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito
normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una
testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo
momento il pericolo più grave per il clero è quello di SCOMPARIRE. Sta scomparendo, perché
tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo
anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse
che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato
a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica
distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la
Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e
massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce
come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno
mano a tutto questo.
Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha
costituita, costituisce BENEMERENZA PROGRESSISTA.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei
più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi «detti magari di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a
movendo, tanquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del
parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del
progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette
l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.
Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza
plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma
praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto
per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della Santissima
Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la
Santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate
ha reagito.
Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai
quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari
ammannendo discussioni sul sesso.
Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché,
orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio’
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del
sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza.
La via dell’inferno.
CONCLUSIONE
Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi,
quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo
va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche, che rinnovano l’organismo,
ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la
parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di
vita degli spiriti migliori.
Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.
La dittatura dell’opinione
1970
(Da «Renovatio», VI (1970), fasc. 4, pp. 477-490)
Il presente testo ha il carattere di resoconto di una conversazione e non è propriamente una
intervista. Non si sono richieste al cardinale tanto delle indicazioni su un argomento determinato
quanto una visione d’insieme. Le domande, piuttosto che interrogazioni, sono mezzi per rendere più
viva l’esposizione di un pensiero e per consentire uno svolgimento connesso alle problematiche
correnti.
RENOVATIO — Esiste, secondo V. E., un rapporto tra la situazione presente della società umana
nel suo complesso e quella della Chiesa? Vi è un rapporto tra le difficoltà presenti della religione e
quelle dell’umanità?
SIRI — Come sarebbe possibile diversamente? La Chiesa non vive separata dal suo tempo e dal suo
mondo. Le difficoltà che l’uomo sperimenta oggi a vivere da uomo si ripercuotono nella difficoltà
che il cristiano incontra a vivere da cristiano.
Il mondo odierno vive della conquista della materia: anche se la scienza gli rivela che la sapienza e
la potenza dell’ordine creato superano da ogni parte la capacità di previsione della ragione, l’uomo
si trova però chiuso nella struttura mondana che egli si è costruito. L’uomo ha scoperto di poter
conquistare la materia, di poterla rendere strumento della sua volontà: ciò gli ha tolto il senso di una
superiore prudenza e ha fatto della conquista del mondo il saccheggio del mondo, la perdita della
realtà umana più profonda: lo spirito.
La spirito è pietra angolare dell’uomo e del mondo: pure esso è la pietra che i costruttori della
nostra società presente hanno voluto dimenticare e respingere. Siamo giunti così in un mondo in cui
la persona umana non ha valore perché l’uomo non ha più significato, e non è più considerato
l‘immagine di Dio.
Quando gli uomini fecero le loro prime scoperte, vi fu un senso di superbia e di assoluto predominio
dell’uomo sul mondo: è ciò che ci viene narrato nel racconto della torre di Babele, una visione
profonda della dialettica della civiltà. Dio confuse allora le lingue. Ma oggi le menti stesse degli
uomini sono confuse. L’ora del massimo della potenza è l’ora oscura, in cui la sapienza mondana
non sa che prefigurare la crisi definitiva dell’umanità. Ma i cristiani sono figli della speranza.
RENOVATIO — Ogni realtà mondana è giustificata da quelle che san Paolo chiama le filosofie di
questo mondo. Quali sono le filosofie dell’attuale potere mondano?
SIRI — La prima e fondamentale dottrina del potere di questo mondo è l’affermazione: non c’è
verità. Sant’Agostino diceva che la differenza tra la civitas mundi e la civitas Dei è che la prima ha
mille opinioni, la seconda una sola verità. La differenza principale tra le due città non sta sul
contenuto, ma sull’esistenza della verità. Basti ricordare il drammatico dialogo tra Cristo e Pilato,
circa la verità ed il regno. Se non c’è nulla di vero, allora l’unico principio che conta è l’utile.
Filosofie diverse confluiscono tutte in questa direzione.
Possiamo elencare, nel nostro mondo europeo, i reliquati del pensiero hegeliano. La sostituzione
della Chiesa con l’umanità è uno dei motivi costanti di tanta letteratura, che si etichetta di cattolica.
All’uomo, spirito e persona, si sostituisce l’uomo collettivo. L’uomo collettivo è una eredità dello
Spirito assoluto, via Feuerbach-Marx. Un altro principio della cultura mondana moderna è il
freudismo, ma un freudismo dimezzato. Si è dimenticato il senso della morte, ed è rimasto solo il
sesso. Il freudismo è divenuto moneta corrente come affermazione dell’identità fra l’umanità e la
sessualità, come tesi della pansessualità dell’uomo. Così la psicoanalisi è monetizzata nella cultura
di massa solo in senso materialistico. La cultura di massa è poi in concreto asservita ad interessi ben
precisi, rappresenta una selezione precisa di un’immagine d’uomo senza profondità perché senza
spirito. L’uomo è considerato come una passività pura, indefinitamente manipolabile da un efficace
sistema di persuasori occulti. Ma per manipolare compiutamente l’uomo bisogna togliergli fiducia:
e dunque togliergli il senso della realtà di sé come spirito e della realtà di Dio.
A ciò si sono prestati quei teologi della cultura di massa che hanno lanciato lo slogan della morte di
Dio con il medesimo tipo di diffusione di un prodotto commerciale. Ma il Vangelo ha detto: non si
può servire Dio e Mammona: Dio e il lucro: Dio e il mito del potere materiale.
RENOVATIO — Possiamo dire che esiste una tecnica per sostituire alla verità l’opinione, per porre
il gusto dell’opinabile al posto del desiderio del vero?
SIRI — Tale tecnica esiste ed è collaudatissima: basta dare un’occhiata all’attuale pubblicistica
religiosa, letteraria, filosofica. Si tratta di esprimere opinioni così cautamente formulate che non si
possa capire qual è la tesi dell’autore: o meglio ancora: in modo che dottrine intellettualmente
contraddittorie vengano giustapposte l’un l’altra, come se fossero tra di loro compatibili.
Ritorniamo allo slogan della morte di Dio. Se si dicesse negazione di Dio, tutti capirebbero. Ma ci
troviamo di fronte a un’operazione molto sofisticata, che vuol dare l’impressione di salvare la più
distillata e preziosa quintessenza dell’idea di Dio pur nella sua «identificazione» con la realtà
profonda dell’uomo. Prendiamo un’altra frase famosa: «Quando Dio vuole essere non Dio, l’uomo
nasce». Cosa vuol dire questa frase di un leader massimo delle attuali opinioni teologiche?
Rigorosamente parlando, nulla. Essa certo non vale l’espressione dell’uomo «immagine di Dio».
Ma dà l’impressione di nascondere qualche misterioso segreto sui rapporti tra divino ed umano che
la dottrina della creazione sembra tenere velato e inespresso.
Abbiamo scelto esempi di livello sofisticato. Ma poi potremmo continuare con questa teologia piena
di aria fritta. È una manipolazione del linguaggio in modo che si alluda ad eldoradi nascosti del
pensiero invece di esprimere chiari e distinti concetti. Restiamo sul campo teologico. Qui abbiamo
diffuso a livello universale le espressioni di conservatore e di progressista. Chi è conservatore?
Colui che è contro i progressisti. Chi è progressista? Colui che è contro i conservatori.
RENOVATIO — Ma esistono i conservatori e i progressisti?
SIRI — Nella forma di questo linguaggio favolistico, no: sono delle creazioni fittizie, delle parole
che debbono velare diversi e più gravi problemi, creando una dialettica di comodo che serve per
concrete operazioni pratiche.
Noi qui non abbiamo che una nuova forma della tecnica del relativismo: riducendo ogni questione
dottrinale negli schemi di destra e di sinistra, tutto si relativizza, tutto diviene questione di opinione
e mezzo di potere. Il tale è conservatore? Abbiamo capito tutto. È progressista? Abbiamo capito
tutto. La relativizzazione della verità e della dottrina è il vero scopo di tale esposizione arbitraria
degli attuali problemi della Chiesa. Ed il relativismo è la condizione per la manipolazione
dell’uomo, per la sua riduzione nei limiti della materialità pura, nella mitizzazione del suo comodo
e della sua utilità: che è la via della sua servitù, della sua tristezza, della sua angoscia, della sua
noia, della sua follia.
RENOVATIO — V.E. ha detto altre volte del problema della salute mentale come di un problema
dell’uomo d’oggi.
SIRI — Certo: perché il disordine dello spirito diviene immediatamente il disordine della psiche e
dei nervi. È curioso che a tanto materialismo corrisponda una singolare indisponibilità a valutare le
conseguenze neurologiche del disordine spirituale. Proprio della parte più nobile dell’uomo è di
risentire per primo che le tenebre sono la monte, sono la decadenza della vita.
Sarebbe curioso cercare le ragioni che inducono a dimenticare le precise statistiche, nei Paesi che le
fanno, sulle dimensioni della crisi mentale. Non è questa la civiltà del tranquillante e dello
psichiatra? Non si vuole riconoscere il rapporto tra disordine spirituale e disordine psichico e
nervoso. Perché? Forse in nome del materialismo? No: vi è piuttosto qui la congiura del silenzio
verso un problema imbarazzante.
RENOVATIO — V.E. indica una situazione di crisi globale dell’umanità: la sostituzione
dell’opinione alla verità conduce al «deperimento» dell’umanità, ad una situazione paradossale di
potenza e di alienazione ad un tempo. Se dovessimo chiedere, in forma riassuntiva, qual è la parola
cristiana di cui ha particolare bisogno questa situazione storica dell’umanità, quale parola
sceglierebbe V. E.?
SIRI — Non vi è dubbio: la Croce.
RENOVATIO — Non sono certo le croci che mancano oggi agli uomini.
SIRI — Non sono la croce di Cristo. Anche se ogni dolore porta misteriosamente frutto, è un
messaggero di Dio, non è ogni dolore che libera: è il dolore sopportato nella croce e sulla croce di
Cristo: è la sofferenza redentrice. Questa è pace, gioia, serenità. Ricordo le parole di Chesterton.
Egli si domandava che cosa il Signore nascondesse ai suoi discepoli quando si ritirava a pregare con
il Padre. Rispondeva: la sua gioia, la sua immensa gioia. Eppure la croce gli stava dinanzi: ma era la
croce dell’amore del Padre, era la croce di vita.
Noi non siamo i predicatori del benessere per il benessere: e nemmeno i diffusori di esso. Dio
provvede ai suoi figli. Ma noi abbiamo le parole di vita eterna: queste dobbiamo dare. Di queste
l’uomo ha bisogno. Le sue sofferenze sono spesso strumento di speculazione e di menzogna, magari
in buona fede: di questo non dobbiamo dimenticarci. La vita religiosa è una testimonianza della
croce del Signore: quando la povertà diviene occasione di abbondanza e l’obbedienza occasione di
fare il comodo proprio, la vita religiosa si estingue.
RENOVATIO — Questa parola è dura per l’uomo formato alla ideologia del benessere...
SIRI — Certo, è dura. Non mancano i critici del benessere oggi: ma essi stessi vengono poi catturati
dai mezzi di diffusione della civiltà del comodo e del confort e diventano arredi pseudospirituali di
questa stessa civiltà, l’ossigeno che ci vuole per sopportarla, per lasciar sfogare in parole tensioni
impotenti di rivolta...
Comprendo quel che c’è di buono nei critici del benessere: tuttavia essi accettano l’immagine di un
uomo senza significato, di un futuro che non vince la morte, di una persona che ha senso solo nel
presente e nella società umana. Perciò essi non possono far nulla.
RENOVATIO — L’ideologia del benessere è soprattutto un’immagine dell’uomo imposta dai
mezzi di comunicazione sociale.
SIRI — Questo è il punto: l’immagine dell’uomo senza profondità e senza significato, dell’uomo
senza spirito e senza Dio è diffusa oggi da una catena imponente di mezzi di diffusione del
pensiero, che impongono con la forza del loro apparato la loro immagine del mondo come se fosse
la realtà stessa. L’uomo è solo, lo spirito in lui testimonia di sé e di Dio come verità private, ma i
mezzi di comunicazione sociale gli impongono un uomo che non ha futuro, un uomo che non ha
altra prospettiva che il piacere del giorno per giorno. L’uomo viene così condotto alla disperazione,
perché il piacere, colto giorno per giorno, svanisce giorno per giorno.
RENOVATIO — C’è una parola del Vangelo di Giovanni cui si adatta la descrizione di oggi quale
V.E. ce la offre: il potere delle tenebre sugli uomini.
SIRI — Si, il Vangelo descrive ogni tempo, anche il nostro, la parola del Vangelo è sempre vera e
attuale: la sua diagnosi come la sua risposta... Il potere delle tenebre conduce l’uomo alla morte...
Un convegno internazionale a Strasburgo ha dichiarato che il deterioramento del pianeta, dell’aria,
dell’acqua, conduce l’umanità al suicidio. Ma chi imporrà legge agli interessi, alla caccia del lucro?
Si provi a toccare una sola fabbrica chimica: l’immagine del benessere che rischia di essere toccato
per un motivo di sopravvivenza comune farebbe sollevare interessi economici, muoverebbe intere
popolazioni. Eppure si tratta della vita della umanità presente, di quella futura... Tanto
umanitarismo tecnico non riesce a convincere il singolo a fare un sacrificio se non è imposto, la
salvezza è affidata alla burocrazia, perché senza disposizione al sacrificio non vi è più creatività
umana, storica e civile, non vi è più spontaneità né libertà. Io dico che l’immagine dell’uomo senza
profondità, senza spirito, senza Dio, è l’immagine della morte. Il peccato è la morte. Le verità della
Scrittura stanno diventando verità della esperienza sociale, pratica quotidiana...
RENOVATIO — Ma la Chiesa parla oggi all’uomo della croce che è vita e liberta?
SIRI — La Chiesa, sì: se qualcuno si avvicina ai beni divini che la Chiesa indefettibilmente
custodisce, trova parole di vita eterna. Ma tanti cristiani sono coinvolti nella crisi stessa
dell’umanità, sono portati ad adorare anch’essi l’idolo dell’uomo senza profondità: da destra e da
sinistra, in nome del benessere o in quello della rivoluzione. Nella nostra stessa vita ecclesiastica si
lamentano talvolta fenomeni paralleli a quelli della vita sociale nel suo complesso. La dittatura
dell’opinione in cui viviamo si ripercuote anche nella vita ecclesiastica. Un’editoria pronta soltanto
a sollecitare il fantastico, l’inaudito, l’irreale, a criticare il passato perché passato e a prevedere un
futuro di sole luci, di totali vittorie dell’umanità, obbedendo in ciò alla legge della imposizione del
prodotto, della ricerca del consumatore, cioè a motivi di lucro, è oggi una delle piaghe anche nella
Chiesa.
Oggi, ogni teologo che passi per iconoclasta, liberatore, innovatore, è subito captato da un’editoria
compiacente, che diffonde per tutti i canali dei mezzi di massa questo dissenso confortevole, questa
iconoclastia per amor del comodo e del successo. Il divismo di teologi, di scrittori, di figure della
protesta: ecco un dolore, una sofferenza per la Chiesa di oggi: coloro che denigrano il passato della
Chiesa per affermare che è proprio dal rinnegamento di esso che la Chiesa riemergerà più autentica.
RENOVATIO — Per qualificare il tipo di errori oggi correnti si è ricorso a due paragoni: al
modernismo e alla gnosi. Si è parlato anche di «protestantizzazione». «Renovatio» ha preferito il
termine gnosi per indicare la separazione delle verità naturali (e veterotestamentarie) da quelle
evangeliche. Il dire, per esempio, che non esiste legge naturale, che i limiti e le pene che l’ordine
presente impone non risalgono a Dio, il negare la pena e la sanzione divina al peccato umano sono
tesi che oggi costituiscono il sottofondo, sempre più esplicitamente espresso, di tanta letteratura
teologica. Ciò ci pare una nuova gnosi.
SIRI — Comprendo benissimo le ragioni di questa espressione: e credo che si possa legittimamente
qualificare di gnosi il complesso di errori oggi ricorrenti visti nella loro sistematicità. Ma credete
voi che i più sappiano il significato di quello che dicono? Questo è il terribile: che non sanno quello
che dicono.
Ciò che viene scelto spesso lo è non per un motivo razionale (sarebbe ancora una affermazione di
verità), ma unicamente per conformismo al mondo. La potenza mondana ha una sua filosofia: e i
teologi del giorno che passa accettano di tradurre le opinioni del tempo in linguaggio teologico, non
perché accettino una dottrina come tale, ma soltanto perché accettano le dottrine che piacciono alle
potenze di questo mondo.
La gravità di questo tempo rispetto agli altri è questo: che non si tratta più di contrasto tra verità ed
errore, ma tra verità e non verità, tra ordine della verità e dittatura dell’opinione. Gli uomini si
ritengono liberi: è questa loro opinione, di essere liberi perché è scritto nei testi giuridici, il massimo
momento e manifestazione della loro servitù. In realtà molti vivono sotto una dittatura: la dittatura
dell’opinione.
RENOVATIO — Anche la Chiesa è sotto una dittatura dell’opinione?
SIRI — La Chiesa, no; ma molti che sono nella Chiesa, sì. La Chiesa non può mai essere violentata
nella sua libertà senza che lo Spirito Santo susciti potenti reazioni. A un livello notevolmente
diverso e più particolare, possiamo considerare i pontificati diversi e talvolta reattivi tra di loro.
Nella diversità, Dio fa l’unità.
La bufera che si scatenò attorno al Concilio non fu voluta da papa Giovanni, che ne soffrì
profondamente; ne sono personale testimone. La vera grandezza cristiana di Giovanni XXIII fu nel
modo sereno e cristiano con cui, misurando pienamente la gravità e l’imponenza dei problemi,
accettò umilmente la sua croce sino alla morte.
RENOVATIO — Nell’età di massa, la Chiesa può essere, è chiamata ad essere il supremo presidio
della libertà: il pulpito è infondo l’unica tribuna libera del mondo, se si vuole che lo sia.
SIRI — Il dramma è che tanti non capiscono nulla del loro tempo. L’uomo è oppresso dalle
strutture di Mammona, fortificate dalla filosofia del nulla: oppresso dalle potenze di questo mondo,
dai loro miti. La Chiesa non è con il mondo: la Chiesa è con l’uomo, essa è la voce della libertà,
della libertà che nasce dallo Spirito Santo. La Chiesa non può essere là dove regnano le forme
ciniche o quelle eversive e nichiliste dei padroni di questo mondo e di questo tempo. Ma questa è
una vocazione mirabile per la Chiesa: in questa vocazione opera la potenza dello Spirito Santo. Nel
momento in cui tutto umanamente sembra perduto, allora è il tempo dello Spirito Santo: che
conduce al nulla i potenti di questo mondo e trova vie impensate per mostrare agli uomini la
divinità della Chiesa, della sua opera di santificazione e di santità.
RENOVATIO — Possiamo riassumere così la visione che V.E. ha della crisi della società umana
cosi come della presente situazione ecclesiale: vi è una realtà umana che i mezzi di comunicazione
di massa non dominano, vi è una vita cristiana che la dottrina dell’opinione non corrompe?
SIRI — La realtà che conta è sempre la realtà profonda, quella che la dittatura dell’opinione nega
perché non riesce ad afferrarla. La presente situazione della Chiesa è una delle pin gravi della sua
storia, perché questa volta non è la persecuzione esteriore a impugnarla, ma la perversione
dall’interno. Più grave. Ma le porte dell’inferno non prevarranno.
RENOVATIO — Tuttavia vi sono mezzi e provvedimenti che possono essere oggetto di desiderio
dei fedeli: può indicarne V.E. eventualmente qualcuno?
SIRI — La cosa più urgente è restaurare nella Chiesa la distinzione tra verità ed errore. Talvolta
sembra riecheggiare come dominante il dibattito teologico la domanda di Pilato: che cos’è la verità?
Occorrono atti che sfatino la legittimità della dittatura dell’opinione, questo terribile potere di fatto
che limita e coarta il potere di diritto. Siamo al punto in cui qualunque esercizio dell’autorità
ecclesiastica è considerato abuso nei confronti della libertà. Come se l’autorità fosse la negazione
della libertà! Mille poteri illegittimi coartano ben più gravemente e ben più sistematicamente la
coscienza e la libertà delle persone sul piano immediato, mentre sul piano più profondo le separano
dalla verità, espressa nelle fonti della Rivelazione e nel Magistero. Io spero che le giuste e
autorevoli distinzioni verranno.
RENOVATIO — Quando si parla di un ritorno ad una condanna formale di proposizioni, si dice
che ciò non è conforme alla natura pastorale dell’autorità nella Chiesa. E si dice anche che ciò
potrebbe dar luogo a scismi.
SIRI — La pastorale non è l’arte del compromesso e del cedimento: è l’arte della cura delle anime
nella verità. Quando questo è stato detto tutti hanno capito: anche, e soprattutto, quelli che hanno
deformato o criticato. Il linguaggio del buon pastore è all’opposto di quello che dicono alcuni
teologi del momento.
Non credo a possibilità scismatiche. Coloro che usano della loro funzione ecclesiastica per
sovvertire la Chiesa contano, in realtà, innanzi agli occhi de mondo solo perché esiste quella Chiesa
che essi intendono demolire in nome della «Chiesa futura umanità».
Poi ci sono tanti segni, soprattutto fuori d’Europa, che indicano che i demolitori della Chiesa hanno
fatto il loro tempo. Posso ricordare qui, come esempio, il contegno della Chiesa africana, che ci
ricorda nel nome la grande funzione della Chiesa d’Africa nel III, nel IV e nel V secolo. Essa è un
conforto per la Chiesa universale e per il pontificato romano.
RENOVATIO — La liturgia stessa è oggi oggetto di contestazione e di negazione: basti pensare
alla underground Church, alla messa senza paramenti, a vari aspetti che tendono a diminuire il
carattere sacrale e sacrificale del culto cristiano. Sacro e sacrificio sono parole esorcizzate da molti.
SIRI — Vi sono questi aspetti più gravi, che sono la conseguenza, sul piano liturgico, di radicali
errori dottrinali. Si faccia della liturgia, ma della liturgia non si facciano deformazioni abusive.
Oggi si rivelano pericolose perdite nell’essenziale. Il sacro non è soltanto il rito: è la presenza nel
rito della realtà significata. Quando si mitizza il rito, si perde il senso della sostanza che contiene.
Non ci si meravigli poi che l’Eucarestia divenga per taluni una semplice festa dell’unità umana, in
cui Dio è semplicemente spettatore. Qui, siamo non alla eresia, ma alla apostasia.
RENOVATIO — Potrebbe V.E. accennare ad una tematica che oggi sembra nodale nell’attenzione
teologica: l’ecumenismo?
SIRI — L’ecumenismo del decreto conciliare è perfetto. Ma esso è diventato oggi per taluni il
luogo classico dell’equivoco. Coloro che amano le idee imprecise, gli adepti della dittatura
dell’opinione sono tutti diventati dottori ecumenici. Il problema ecumenico non è un problema di
cui si intraveda facile soluzione. Ma esso diventa facilmente una occasione di cui ci si serve per
appannare l’integrità cattolica. Abbiamo visto che l’ecumenismo è da taluni citato addirittura come
un luogo teologico, in senso proprio. Cosa vuol dire? Che la dottrina cattolica deve essere
discriminata secondo l’opinione meno sgradita all’insieme delle comunità cristiane? Un recente
noto saggio ecclesiologico sembra strutturato secondo questa dottrina dell’ecumenismo come luogo
teologico. Io non riconosco in saggi del genere il carattere cattolico.
RENOVATIO — V.E. vede segni autentici di un rinnovamento della Chiesa?
SIRI — Noi siamo in un tempo di prova: e nei tempi di prova è più facile vedere la tenebra che la
luce. Ma la luce è presente: la potenza stessa della tenebra è un mezzo di purificazione perché siamo
fatti più capaci di vedere la luce. Le tenebre non possono vincerla. Noi sappiamo che il Signore
conduce le cose in bene: ed usa le sofferenze e gli stessi peccati degli uomini perché ne risulti un
bene pin grande.
Quando cento anni fa cadde il potere temporale, il Papa sembrò prigioniero. «La fine del papato»,
strillavano i modesti mezzi di comunicazione sociale d’allora. Stava invece per cominciare una
grande stagione del papato. E la stessa perdita del potere temporale vi contribuì. Non che noi
dobbiamo salutare i politici di allora come dei liberatori della Chiesa: è che Dio usa delle opere di
tutti per il bene del suo popolo, che è il bene di tutta l’umanità. Sarà così anche domani: delle nostre
difficoltà, si considererà soltanto la luce. La nostra umana debolezza, l’isolamento, il senso di
sconfitta apparirà cambiato dalla potenza di Dio, in segno della gloria della sua città. È nella luce
della croce del Signore che la notte diviene luminosa. Non sono un pessimista, solo rilevo che il
tempo si è fatto scuro perché l’ombra del culto delle cose materiali si stende sul mondo. Ho sempre
notato che in genere gli errori teologici derivano da inquinamenti marxisti. È una storia lunga. Ma
finora non ho trovato sulla mia strada uomini cosi puri nella fede come quelli che hanno
esperimentato nella vita quella teoria. Sono stati vaccinati.
1967
Ai miei cari Confratelli,
nel 1958, in occasione del diciassettesimo centenario del Martirio di San Cipriano avevo indirizzata
al mio Clero una lettera dal singolare titolo «i complessi di inferiorità». Quella lettera voleva
mettere in guardia contro un difetto purtroppo facile e che gli anni seguenti al 1958 hanno
dimostrato assai diffuso. La lettera aveva una preoccupazione di fondo: concorrere a stabilire
nettamente una linea di distinzione tra noi, uomini votati del tutto a Dio nel servizio dei fratelli e il
gran mondo La linea di distinzione c’é perché l’ha inculcata Nostro Signore Gesù Cristo nel più
grande dei suoi discorsi «Voi siete nel mondo, non siete del mondo» (Giov. 17) e pertanto non può
essere oggetto di dubbio o di discussione. La questione sta nel fatto che le distinzioni o sono fatte
con una linea matematica, la quale non ha estensione e dove solo la più assoluta precisione permette
di non mescolare quello che non va mescolato, o ammettono, tra le due parti, una zona grigia, la
quale può venire invasa e da una parte e dall’altra e dove pertanto possono sorgere con facilità e
danno estremi le confusioni.
Ritengo mio dovere fare il possibile per illuminare ai miei cari Confratelli nel sacerdozio questa
fondamentale distinzione tra noi e il mondo, perché è solo col rispetto di questa distinzione che
saranno sacerdoti puri, onesti, coerenti, rispettabili, efficaci.
Oggi riprendo il discorso del 1958 per rispondere con un argomento diverso alla stessa esigenza di
fondo: distinzione dal mondo.
E l’argomento è la debolezza della mimetizzazione, rispetto al mondo.
Parte Prima: LA MIMETIZZAZIONE
1. Che cosa è
Mimetizzarsi è rendersi uguali, od almeno simili, all’ambiente nel quale si sta.
Vi sono molti animali che hanno questa dote e per essa possono persino cambiare colore in modo
che riesce difficile distinguerli dalla flora o dal terreno in mezzo ai quali stanno Così si difendono,
perché l’eventuale aggressore più facilmente è tratto in inganno sulla loro presenza. In guerra la
mimetizzazione viene largamente usata per far fallire il bersaglio del nemico e per nascondergli la
propria presenza. Si tratta di due casi, nei quali la mimetizzazione non è affatto una debolezza; è
invece, negli animali uno strumento, negli uomini una onesta astuzia per la propria difesa.
Qui non si parla di tale mimetizzazione materiale. Ci si occupa della mimetizzazione morale che
consiste nel prendere atteggiamenti di pensiero, di contegno, di simpatia, di consenso, di imitazione
propri dell’ambiente generale o di un determinato ambiente allo scopo di ottenere determinati
effetti.
La spia, l’evasore, l’ambizioso, il ricattatore, il congiurato, il traditore si mimetizzano in tal senso
quanto possono per carpire, per sfuggire, per riuscire a buon mercato
Non intendendo occuparmi di spie, etc.: coloro ai quali è destinato questo scritto non appartengono
a tali categorie.
I tipi di mimetizzazione sono tanti quanti gli ambienti ai quali ci si vuole assimilare esternamente.
Perché la mimetizzazione è un fatto essenzialmente esterno. Vorrei che si notasse accuratamente
questo, perché è della massima importanza in tutto il nostro presente studio.
Non è mia intenzione perdere tempo per parlare della mimetizzazione specifica rispetto a questo o a
quell’ambiente: parlo della mimetizzazione generica a TUTTO l’ambiente mondano che ci
circonda.
2. Per quale scopo ci si mimetizza
La mimetizzazione, che è sempre un fatto istintivo negli animali, è invece negli uomini un fatto
voluto, anche se non si possono escludere piccoli margini in cui opera la suggestione o la
imitazione. Ed è un fatto voluto perché ha uno scopo. Vediamo gli scopi più comuni per i quali ci si
mimetizza. Gli scopi principali per cui moralmente ci si mimetizza sono tre: la paura, la difesa, la
conquista. Si tratta di tre scopi che possono rifrangersi in molti modi. Vediamo di discorrerne
partitamente.
La PAURA. Essa fino ad un certo limite fa parte della natura umana, per il solo fatto che la natura
umana è sotto taluni aspetti MENO FORTE della natura inanimata od anche solo perché è in
determinati individui meno forte di altri individui della stessa specie. E’ comprensibile sempre e,
spesso, è irreprensibile. Infatti le carature diverse, i pericoli incombenti, l’istinto di conservazione
giustificano il timore, il senso di fuga dei quali è costituita la «paura». Non si può imputare in via
generale e fino ad un certo punto, quasi fosse colpa, l’avere naturalmente paura. Tanto più che
spessissimo la paura è solo una forma di patologia nervosa.
La questione morale, quella per cui si pone il dovere di reagire alla paura, distruggendone il dettame
sorge ad un certo punto. Sorge quando la intelligenza avverte che non è giustificata od è esagerata o
non consentanea alla personale dignità, oppure quando avverte che la stessa paura spinge a
compiere il male o a fuggire un dovere pur sempre incombente, ad onta della paura. Ricordo la
paura che incutevano i bombardamenti aerei; non si trattava davvero di paura colpevole. Ma quando
si fosse trattato di un sacerdote obbligato o per giustizia o per carità a soccorrere i morenti, la paura
che avesse immobilizzato, in quanto stornava da un sacrosanto dovere, era obiettivamente parlando
certa fonte di colpa. Nessuno è obbligato, salvo il caso di carità, di giustizia, di ufficio o di bene
comune a notificare le malefatte del prossimo; ma quando la giustizia stretta o il dovere certo
obbligassero a parlare e la paura facesse tacere, quella paura diventerebbe colpevole e forse
ignominiosa e traditrice. La paura anche quando è scusata in certi limiti dalla umana condizione non
è una colpa, ma non è neppure un vanto: è solo una espressione piuttosto umiliante di limiti e di
debolezze. Sicché, anche se fino ad un certo punto non è un male, non è mai un onore. La
educazione che si dà ai ragazzi, deve tendere tra l’altro a diminuire in loro il margine della naturale
paura, attrezzandoli invece alle manifestazioni di coraggio. La paura per cui ci si mimetizza potrà
talvolta ed in talune circostanze essere ammessa, ma non sarà mai il motivo per una medaglia al
valore. Va considerata come una ipoteca che il coraggio deve decurtare. In molti casi è solo una
penosa tentazione da vincere.
La DIFESA può essere spesso mossa o richiesta dalla paura, ma non sempre. Infatti essa è solo un
atto contrario ad un altro atto che può venir considerato aggressivo. La difesa purché giusta è lecita.
Ma la difesa di fronte al pericolo diventa ingiusta se si spinge — posto che non si tratti di sciocca
paura — fino a contenere un coraggio doveroso, una azione di rischio necessaria. Se si dovesse
parlare altrimenti della difesa, non sarebbero mai esistiti uomini che hanno tenuto con sacrificio il
loro posto, apologisti che hanno sfidato l’errore, intrepidi che si sono opposti ai cattivi eventi,
martiri che hanno versato il sangue.
Non c’è dunque alcun dubbio che l’istinto della difesa, oltre un certo limite non autorizza
moralmente a mimetizzarsi.
Tanto meno autorizza quando il pericolo in effetti non c’è o non è dal punto di vista del danno,
valutabile.
Si tenga presente che «mimetizzarsi» è atto positivo, non è atto meramente negativo, come tacere e
non essere presente. Neppure il tacere e l’assenza diventano leciti quando esiste un positivo dovere
di parlare e di mostrarsi. Come di fatto molte volte esiste. I pericoli talvolta debbono essere fuggiti,
talvolta possono essere fuggiti, talvolta debbono essere affrontati.
La CONQUISTA è in materia il fatto più complesso. Ha molte specie e sottospecie.
Ci si può mimetizzare per pigrizia: in realtà l’«esser diverso» può esporre fastidiosamente agli
sguardi altrui, ai commenti malevoli, alle reazioni. Subire tutto questo diventa «fatica» ed allora ci
si allinea colla massa, per non avere quei disturbi. La pigrizia è un difetto e tutto quello che si fa per
pigrizia, ordinariamente, non diventa virtù. E’ solo la ignobile conquista della altrui benevolenza, se
non — meno nobilmente — della altrui tolleranza. Si tratta dell’angolo d’ombra in cui si rifugiano
tutti i deboli.
Il conformismo, descritto in quanto s’è detto fin qui, è una vile captatio benevolentiae ed è la forma
meno onorevole di risolvere i problemi posti dalla umana convivenza, tanto più che non ha
assolutamente alcuna lontana parentela colla obbedienza, col rispetto, colla moderazione e colla
pazienza. Esso — il che è caratteristico del mimetizzarsi — cancella la personalità propria per
simulare quella altrui.
Ci si mimetizza per ingannare e l’inganno è strumento di una conquista, ottenuta ad indegno prezzo.
Ci si mimetizza per euforia, per tifo, per ammirazione, per concorrenza, per stupidità od almeno per
errati giudizi sul valore altrui. In tal caso l’obiettivo è la compartecipazione di quanto s’esalta o si
ammira, la conquista di un posto al sole, un mettersi sottovento. Spesso è solo vacua imitazione.
Non sempre tutto questo comincia da una colpa, ma ben difficilmente potrà salvarsi tra le cose
degne e nobili. Ricordo quand’ero bambino un mio compagno che si piccava di imitare quanto
poteva una smorfia caratteristica di un personaggio illustre. Non c’era nulla di male in fondo, ma
noi si rideva ed anche chi aveva quel vezzo, capì e se lo levò.
Ci si mimetizza per acquistare popolarità. Bisogna dire che la popolarità costituisce uno dei difetti
più diffusi e delle debolezze più evidenti del nostro tempo. Il mio scopo non è quello di fare dello
spirito, anche se qui lo potrei fare, a spese però altrui.
La popolarità in se stessa è una buona cosa, ma la sua ricerca generalmente deforma, la sua fame
ignobilmente contorce. E il pubblico si diverte.
Ci si mimetizza per conquistarsi protezioni, simpatie, spinte di carriera e di affari, allori e
preminenze. E’ un modo per farsi portare in braccio anche da grandi.
Si potrebbe continuare.
Concludendo si può affermare che non sempre il mimetizzarsi costituisce una colpa, ma che oltre un
certo limite, a seconda della moralità delle cause e degli scopi può diventare tale. Anzi ha estrema
facilità a diventare tale. Ed è per questo motivo che ne esce contraffatta la sincerità della
convivenza civile.
3. Il contagio della mimetizzazione
La mimetizzazione passa dall’individuo all’ambiente ristretto, da questo alla massa con facilità
estrema. Si tratta di un contagio che non è solo spirituale, perché scaturisce anche dalla suggestione,
dal fatuo entusiasmo, oltreché da paura, dal calcolo di conquista, dalla difesa, dall’istinto di
conservazione e di imitazione, dalla illusione di raggiungere qualche scopo con minore spesa.
L’importante è che dilaga. I più grandi fatti politici trascinatori ed effimeri di questo secolo hanno
data la documentazione di questo dilagare: non furono fenomeni di ragione, ma fenomeni di
contagio.
Taluni fatti che ancor oggi tengono in sospeso la normalizzazione sociale del mondo in molti paesi,
sono pur essi fenomeni del contagio di cui si parla, almeno in parte. Nella Chiesa stessa talune
vicende meno brillanti contro le quali si leva la voce del Sommo Pontefice sono fenomeni di
contagio dilagante.
Il dilagare ha le sue cause. Eccone alcune
— Il monopolio della intelligenza. La parola monopolio è sempre deteriore, anche quando indica un
fatto reso legittimo da necessità pubblica. Ma quando taluni uomini riescono a creare la impressione
di detenere essi il lume della ragione, della scienza, possono creare un tale timore in quelli che non
siedono a posizioni accademiche da imprimere addirittura i movimenti del panico Nessuno vorrebbe
passare per stupido: è solo questione di fargli credere che sarebbe stimato tale, quando non
accettasse e professasse una determinata idea
— Il momento della fortuna. Chi ha denaro, può chiederne a chiunque e tutti gliene daranno. La
fortuna non ha solo la provincia del danaro: le sue province sono molte. Il convincimento che
qualcosa è fortunato scatena ben più che una valanga o una alluvione: tutto frana da quella parte!
— La sistemazione della quiete. Molti prendono le idee di un partito, ne assumono movenze,
entusiasmi, modulazioni, furori unicamente per quietare. Questa è certamente la forma più ipocrita
della mimetizzazione, ma, intanto, cosa fatta, capo ha.
Nel tempo che segue il Concilio di Rimini qualcuno poté scrivere che il mondo si meravigliò di
essere ariano. La quiescenza di parecchi vescovi, la non sempre chiara e lineare condotta di Liberio,
assecondò la illusione. Il mondo non era affatto ariano. Ma a disincantarlo occorsero uomini della
tempra di Ambrogio e di Ilario. La sintonia colla «massa», questa spaventosa cosa che poco
conserva di umano, appare sempre una prima cinta protettiva contro quello che può succedere.
Ecco come dilagano le mimetizzazioni. I pochi che vi resistono non hanno molto da scegliere: o
schiantati, o infangati, o soppressi. Nella miglior ipotesi sono ignorati.
C’è una ragione profonda in questa capacità di dilagare della mimetizzazione ed è che il bagliore
della intelligenza vera o falsa, l’incanto della fortuna solida od effimera, il condizionamento della
propria quiete hanno per sé una tale capacità pubblicitaria, un tale montaggio di ricchezza scenica,
una tale tecnica di mezzi di comunicazione da mozzare il respiro alla gente. La quale in gran parte,
nella commedia del mondo, fa la parte di spettatore di cui si eccitano, orchestrano e lanciano tutti i
sentimenti.
Il guaio grosso si ha quando queste contaminazioni del mondo, compaiono anche nella Chiesa.
C’è tuttavia un motivo di consolazione.
Molti che paiono perversi, sono soltanto mimetizzati. Smontarli diventa più facile; spesso basta
cambi temperatura o stagione e tutto è finito. Coi guai umani, in fin dei conti camminano anche e
sempre occulte facilitanti risorse!
Parte Seconda: LE MIMETIZZAZIONI
Noi scriviamo per il Clero e pertanto ci occupiamo solo delle mimetizzazioni, che lo potrebbero
tentare e che di fatto talvolta lo tentano. Leggendoci, potrà anche accadere che qualcuno trovi un
ritratto a sé rassomigliante.
E’ opportuno dire subito con chiarezza quale è il termine, rispetto al quale può sorgere la tentazione
di mimetizzarsi. E’ uno solo: il mondo con — naturalmente — i suoi diversi rappresentanti. E ci
interessa solo questo, perché mimetizzarsi col mondo, significa almeno qualcosa, allontanarsi da
Gesù Cristo. Niente altro.
1. La mimetizzazione intellettuale
Il mondo ostenta un pensiero, anche se questo spesso è solo fantasia. In un pensiero si enunciano
principi, criteri, metodi. Sarebbe una impresa pazzesca recensire qui il pensiero del «mondo», anche
perché i più se lo creano, badando a diversificarsi dagli altri e non avendo alcuna preoccupazione
della verità. Tuttavia in questa sinfonia dissonante e confusa vi sono alcuni punti di convenienza
abbastanza generale e, quando uno si mimetizza col pensiero del mondo, in realtà bada a
mimetizzarsi con quelli. Essi sono: la propria assoluta libertà di fronte a qualsiasi argomento di
autorità e la propria assoluta autonomia di fronte a chiunque, la indipendenza dinnanzi ad ogni
realtà interpretata pertanto relativisticamente, il credito fatto a ciò che piace indipendentemente da
ogni altra considerazione, la capacità di trasferire a qualunque linea comoda i limiti della morale.
Questi punti di orientamento intellettuale mondano, a svolgerli, contengono tutte le apostasie
possibili e tutte le negazioni più audaci ed empie.
Non sappiamo se per fortuna o per disgrazia, quasi nessuno si prende la briga di svolgere fino in
fondo, logicamente, quei punti e così molti possono credere, abbracciandoli e adottandoli in forma
più o meno cosciente, di non avere conti gravi, aperti colla propria Fede. E’ questo «ti vedo e non ti
vedo» che permette entri di soppiatto il demone della mimetizzazione.
Entra di fatto.
Taluni hanno ridotto tutto il Cristianesimo alla «salvezza» e questo è in un certo senso vero. Ma lo
fanno in modo da spingere verso la discussione, la critica, lo svanimento molti altri punti che fanno
parte del patrimonio, non meno del concetto della salvezza. E qui siamo fuori della verità e della
stessa salvezza. Che è successo? E’ successo questo. Un protestante, con singolare arbitrio, volle
ridurre tutto al nucleo della «salvezza» lasciando ad una crociata di demitizzazione se non tutto il
resto, buona parte. Trovò chi gli fece eco, ebbe illustri agenti anche in campo cattolico, fece rumore
e col rumore occupò la piazza. Più d’uno di quelli che vogliono passare per intelligenti, visti gli
affari positivi di Bultmann hanno cominciato a mimarlo. Nelle retrovie, moltissimi che non sanno
nulla di Bultmann, si sono messi a demitizzare qualcosa, comechessia, mimando i mimetizzatori
dello stesso Bultmann.
Nella interpretazione della Sacra Scrittura, pressoché tutti i giorni, in qualche Rivista o in
pubblicazioni specifiche, si sentono opinioni che, chi conosce Tradizione e Magistero, non riesce
affatto a conciliare con essi. Si tratta di mimare quelli che stanno sulla stessa sponda di Bultmann.
Una sezione del mondo, del gran mondo, si è spostata in chiave editoriale sulla sponda delle scienze
sacre ed in genere delle pubblicazioni religiose, che sono più o meno intinte degli effati sopra
ricordati. E’ credere di stare nel plotone degli stupidi, qualora non si segua quello che in tal modo si
stampa e si divulga
La operazione che in sede culturale moderna da molti si conduce, con astuta finezza, separando in
arte l’elemento formale dalla sostanza delle cose rappresentate o del pensiero espresso, va
insinuandosi per una incosciente mimetizzazione in talune manifestazioni di casa nostra e se ne
sono sentiti gli echi dovunque.
Il tacere che molti predicatori, catechisti — per non parlare di scrittori — fanno del peccato, della
morte, del giudizio, dell’inferno e dello stesso paradiso si riduce ad una mimetizzazione mondana: il
mondo infatti di queste cose non vuol sentire parlare. E si arriva per vigliaccheria e stupidità a
doversi far veder ridere, quando altri ne parla!
Il punto dove la mimetizazione intellettuale tocca il suo apice è in sede di slogans. Ormai tutti i
settori, quello teologico e religioso compresi, ne hanno un buon catalogo; ad usarlo si è dispensati
dall’aver approfondito qualunque scienza mentre si può tentare con varia fortuna di far credere che
se ne è edotti e profondi. Una parte degli slogans sono equivoci, anche se sono seducenti, purché
facciano parte del bagaglio alla moda e costituiscano la tessera necessaria ad essere accolti in taluni
ambienti, senza esserne sbranati
Vi preghiamo di osservare bene questa immensa folla che corre dietro agli slogans, li dice, li ripete,
li recita persino con compunzione, convinta di dover fare così per salvare la propria reputazione. In
verità l’accostamento più grande, gli ordigni intellettuali, non lo fanno né alla scienza né al
pensiero, ma solo agli slogans. Ed a livello degli slogans si ha la più miserevole forma della
mimetizzazione inteliettuale.
E’ sufficiente che qualche mezzo di comunicazione sociale, di quelli che parlano forte, indichi
qualcosa come acquisito alla repubblica della gente fortunata, perché non si resista più alla
tentazione di ripetere senza fine, aggiungendovi persino l’aria del convincimento.
Una forma diffusa di mimetizzazione intellettuale sta nel scegliere qualche gruppo, qualche
pubblicazione, qualche persona ed attribuire ai medesimi la incontrastata, supina, indiscutibile
direzione della propria testa. Così accade la meno costosa, ma anche più ignobile forma di
mimetizzazione indiretta: non si guarda agli esemplari, ma solo agli specchi che li riflettono.
Per essa tutto quello che è del mondo, in contrasto con Cristo, colla Chiesa, coi fratelli può essere
assorbito, sì da esserne ridotti impoveriti e stanchi su quella sponda dove non si trova più neppure la
Fede.
2. La mimetizzazione morale
Le depravazioni morali hanno sempre dei precedenti intellettuali, perché hanno la pretesa di
giustificarsi con qualche appropriata formula. Tuttavia può accadere ed accade che ci si adegui ad
un determinato costume, senza affatto ricercarne i precedenti filosofici: comodità, conformismo e
paura li possono egregiamente sostituire. Pertanto, almeno per qualche tempo, ci si può mimetizzare
con un costume improprio ed anche immorale, senza avere la coscienza di fare una scelta di
dottrina. In altri termini ci si può mimetizzare moralmente, senza perdere la Fede. Ma ci si
mimetizza.
Il mondo ha abolito sostanzialmente la modestia e il pudore. Ne salva alcuni limiti legali e lo fa con
aria di sufficienza, coprendo di non sempre benevola compassione chi crede ancora alla modestia e
al pudore. Non ha importanza che levi alte grida dinnanzi a fatti sgradevoli di cronaca ed a crimini
che sono la conseguenza dell’oltraggio sistematico recato alla modestia ed al pudore. E’
perfettamente illogico, il mondo, e questo dovrebbe bastare per giudicarlo siccome merita; ma esso
probabilmente si gloria anche della sua illogicità. Il suo contegno, logico o no, ha presa su coloro
che non tollerano bene di essere esclusi dalla gran sala da ballo universale. Essi, per ottenervi un
posticino ed una qualche considerazione, cercano di apparire ormai spogli a tre quarti di ogni
rispetto alla modestia ed al pudore. Si sporgono, si pavoneggiano di libertà, di superamento delle
viete formule, disdegnano i complessi di colpa (così li chiamano), cercano di farsi sorprendere a
ridere su cose serie, fanno ogni sforzo possibile per piacere ai libertini, accaparrarne la nobile stima
e giungono ad iscrivere tutto questo nei temi di «pastorale moderna».
No! Non è pastorale moderna è solo mimetizzazione.
La giustizia sta morendo ed il processo per farla morire in eutanasia è il seguente. Si trasferisce il
peso della giustizia alla cosiddetta giustizia sociale (giustizia sociale è in gergo di fatto, non
evidentemente di diritto, quella che debbono osservare gli «altri»). Non si parla più di giustizia
commutativa, di giustizia distributiva, di giustizia legale, le quali sono troppo minuziose e cogenti
ed il cui onere non si può bellamente trasferire tutto e solo agli «altri». Ci si arrangia. Accadono
cose talvolta, dalle quali si deve dedurre che la mimetizzazione alligna anche qui.
Canone della azione per il mondo è che bisogna cambiare, cambiare sempre, cambiare tutto. Ciò
perché tutto è in trasformazione, perché si va sulla luna, ecc. Questo canone non viene
mondanamente soppesato come morale ed immorale: appartiene semplicemente ad un’altra
categoria, nella quale la morale non entra più. «Cambiare» ha sapore neutro ed è bene lasciarlo così
senza complicarne i ritmi di evoluzione con barbose questioni morali. Ed invece l’errore è proprio
qui, perché anche il «cambiare» per quanto concerne gli uomini è un atto umano e pertanto è
soggetto alla morale; potrà essere buono, potrà essere cattivo a seconda di ben noti criteri, mai
contenuti nel verbo cambiare e che bisogna cercare fuori di esso.
L’effetto psicologico della situazione del mito delle mutazioni è questo: poiché pare che dispensi
dalle considerazioni morali (come abbiamo detto sopra), dispensa dai limiti, dai ragionamenti, dal
buon senso, dalla misura. E così si è alla rotta di collo.
Le condizioni, offerte dal mito della mutazione continua, sono così tenui e generose ad un tempo,
che la mimetizzazione diviene facilissima e può snodarsi fino ad un certo punto fuori di ogni
rilevazione di coscienza.
Spesso quando la coscienza riprende a funzionare è troppo tardi. Taluni nostri confratelli (non qui)
applicando questo modulo hanno gia eliminati i Santi dalle Chiese, alcuni osano eliminare la Santa
Vergine, non si sa che cosa riserberanno a Cristo stesso nella Eucaristia. Non che ce l’abbiano coi
Santi, la Vergine e l’Eucaristia, ma bisogna cambiare e mimetizzarsi quanto prima come i
camaleonti. E’ difficile dire dove, per taluni di essi, finirà questa storia. Principiis obsta...
Così un margine che pare essere fuori della morale, diventa immoralità.
3. La mimetizzazione del contegno
Avremmo dovuto parlarne per primo, dato che è la porta di tutte le mimetizzazioni Se ne parla in
fine perché di tutte le mimetizzazioni questa é la più stupida.
Essa fa adeguarsi nel vestito, nella tenuta, nella parlata, nel gesto, nella disinvoltura.
A questo complesso recitativo il mondo dà una importanza estrema, con esso avvolge tutto, con
esso cerca di fissare i lineamenti nel volto di tutto. Poche porte resistono a questo complesso,
quando la parte è sostenuta bene. Molte doti inesistenti sono ampiamente sostituite da questo
complesso. Se c’è qualche dote fisica da esibire, il complesso diventa addirittura esaltante.
La tentazione di mimetizzarsi diventa consistente, anche perché l’appello fuori posto ad una astratta
sostanza delle cose, facilita il libertinaggio di tutte le forme. Così più di una volta si scopre che il
punto di riferimento non sono i Santi Apostoli, etc, ma i divi o i fortunati del cinema e della
televisione. Si crede anche che questo faccia colpo sui giovani, dal punto di vista «pastorale». I
giovani sono più profondi di quanto non si creda!
Il vestito è importante: l’abito in buona parte fa il monaco. Le recenti disposizioni della Conferenza
Episcopale Italiana hanno ammesso dei casi nei quali gli ecclesiastici possono usare il clergyman,
pur avvertendo che l’abito normale è la talare. Quello che ci interessa è che nessuno metta il
clergyman perché vuol mimetizzarsi. Sarebbe una vergogna. Non neghiamo che possano in taluni
casi esistere delle buone ragioni per usare il clergyman; neghiamo nella forma più chiara ed aperta
che il volere scomparire e mimetizzarsi possa essere ordinariamente una ragione decorosa e
pastorale.
Esiste un uso delle finezze mondane accessorie al vestito, alla persona, che può capirsi anche se non
sempre scusarsi, della necessità di fare un certo colpo sugli altri. Neghiamo che il fare certo colpo
sugli altri entri nella dignità e santità sacerdotale. Pertanto l’uso di certe finezze e comodità serve
solo a discriminare i sacerdoti tra loro e a fondare un certo giudizio sulla loro vera consistenza.
Tuttavia possono esistere larghe infiltrazioni di mimetizzazione in quel senso e non sono affatto
gaudiose. La gente di mondo ha buon fiuto: è spesso felice di trovare un compagno al proprio
livello, ma quando trova un compagno al proprio livello non trova mai un sacerdote, buono per
l’anima sua. Anche se tutto può servire alla Provvidenza...
La disinvoltura l’abbiamo elencata tra gli strumenti del contegno. Non sarebbe giusto disprezzare a
priori la disinvoltura, anche perché ve n’è una sana e ve n’è una malata. La prima consiste nel
superare pienamente le impressioni o le inibizioni che vengono indite dal di fuori, in modo da
mantenere la propria iniziativa, la propria libertà, la propria scioltezza disincantata, semplice,
sincera, conforme alla tipologia del nostro temperamento e agli ordini del proprio dovere. La
seconda è una recitazione artificiale, imbastita da qualcuno dei peggiori difetti: superbia,
presunzione, irriverenza, esagerazioni... La prima è rigorosamente personale, la seconda può essere
corale, di moda, stereotipia di determinati ambienti, codice di compagnie o di branco e magari di
peggio. La prima vince veramente la timidezza e generalmente si accoppia al coraggio; la seconda
ha maggior parentela colla paura e generalmente fa da schermo ad una timidezza profonda.
La seconda alletta alla mimetizzazione, perché più facile, meno impegnativa e dagli effetti più
roboanti.
CONCLUSIONE
Questa Nostra lettera poteva essere assai lunga. L’abbiamo contenuta nei discreti limiti di una
segnalazione ragionata. Noi dobbiamo contare sempre e soprattutto sulla grazia di Dio e sui mezzi
di questa. Però non dobbiamo dimenticare che sorta di carica psicologica sia per gli altri il fatto di
essere veramente, serenamente, intimamente liberi dal mondo, al tutto indipendenti dalle sue
pecche, dalle sue debolezze e dalle sue mode. Soprattutto dai suoi miti. Nel momento in cui da
taluni si pronuncia la parola blasfema «demitizzazione del cristianesimo», dobbiamo fortemente
affermare che è il mondo ad essere coperto di miti. Può essere ne parliamo un’altra volta.
Il resistere a mimetizzarsi col mondo significa, salvare il sacerdozio. La mimetizzazione costituisce
il vero contraddittorio della pastorale, la sua morte, magari lenta e per gli incoscienti indolore, ma
morte. Salviamo noi, per salvare cose più sacre e più grandi di noi.
+ Giuseppe Card. Siri
Chiese sorelle e chiesa una
1976
Per fare dell'ecumenismo serio bisogna conoscere bene la teologia. Uscendo da questa, diventano
facili tutte le deformazioni o distruzioni, iniziate con termini che possono anche in un primo
momento non destare orrore. L'ecumenismo è una cosa troppo seria per lasciarla a coloro che ne
fanno solamente una «professione».
Questo va premesso per occuparci, come stiamo per fare, delle Chiese «sorelle». La espressione
sarebbe innocua quando il sottofondo dottrinale fosse esatto, ma al punto a cui siamo non è più
innocua e bisogna farvi attenzione.
Alcuni teologi che si occupano dell'ecumenismo, nei confronti delle Chiese orientali, tendono a dare
alla espressione «Chiese sorelle» un senso «alternativo», ossia opposto al concetto di «Unità della
Chiesa» come è inteso tanto in Oriente che in Occidente.
Ecco subito una conseguenza (aberrante quanto il suo principio) di tale alternativa, ossia opposta al
concetto di unità della Chiesa. Questi teologi vanno sostenendo che bisognerebbe cominciare a
mettere tra parentesi come non veramente ecumenici tutti i Concili dopo il VII (Niceno II). La tesi
sarebbe questa: «I dogmi possono essere proclamati solo dalla «Chiesa Una», ossia tanto dalle
chiese occidentali che orientali». Ed ecco la spiegazione: «I dogmi proclamati solo dalla chiesa
occidentale debbono essere riconosciuti per quello che sono, delle definizioni, che sono state
enunciate senza la partecipazione delle chiese sorelle d'Oriente e che debbono essere accettati da un
lato dai cattolici dell'Occidente e dall'altro debbono essere ripensati alla luce dello sviluppo e della
tradizione propria dell'Oriente».
Dunque: dogmi non definitivi, se vanno ripensati.
Dunque: ammissione di «riforma» dei medesimi, insomma le braccia alla buona volontà, ma non
all'errore.
Pertanto, accettare una «carità» che supponga tout court o sostituisca la unità nella Fede è
incompatibile con lo stesso concetto di «depositum fidei» e di «Rivelazione», pur comune alla
Chiesa Cattolica e alle Chiese orientali. Si avrebbe una ecclesiologia non solo spuria ma fuori del
chiaro pensiero del Salvatore, il quale domandò la Fede come inizio di tutto ed indicò quale Fede la
accettazione delle verità da Lui proclamate con tutte le loro conseguenze.
La Unità della Chiesa si attua solo nella piena accettazione del «depositum fìdei»; il rapporto da
«sorelle» non è assolutamente sufficiente. La Unità della Chiesa non è mai venuta meno, anche
dopo il doloroso scisma, perché la Unità Sua viene dall'interno e non dal fatto che tutti i rami Le
siano debitamente inseriti; viene da Pietro, dalla comunione con Lui, dall'esercizio di un Magistero
che non esiste fuori di questa Comunione, viene dalle garanzie date da Cristo soltanto alla «roccia».
I rami staccati restano oggetto di infinito amore, di paziente ed operosa attesa, ma il cessare di
essere «staccati» dipenderà da loro nella grazia di Dio. La verità non si sposta, la si raggiunge dove
sta.
I Concili fin qui tenuti nella legittima forma e ritenuti Ecumenici, sono realmente Ecumenici,
valevoli e durevoli come Ecumenici, senza bisogno di confronti aggiuntivi, di consensi o conferme
susseguenti, senza esigenze di accettazione da parte di chi è separato dalla Roccia della Unità:
l'albero vive senza bisogno di ricevere alcunché dai rami che sono stati recisi.
L'Ecumenismo non lo si fa andando a metà del ponte, ma piuttosto costruendo ponti, tanti ponti in
amorevole fatica, restando fermi sulla riva giusta.
(da «Renovatio», XI (1976), fasc. 3, 277-278)
Il termine «progressismo»
1975
Nota per il Clero
Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole
e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica,
che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si
coniano parole.
Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si
lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati,
capiti, eventualmente smascherati.
Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele
bene, per evitare una sorte ingloriosa.
Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio
operato: «progressismo».
Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un
termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non
bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno
specchio perché ognuno ci si guardi.
1. Essere indipendenti dalla logica Teologica
Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale
indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le
conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica Teologica»?
Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare
ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della
«logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al
magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica
interpretazione sia della Scrittura che della Divina Tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse
consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola
e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far
dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di
quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra
gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione
filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare
l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la
dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.
La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della
logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera
della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del Magistero
Ecclesiastico!
Il Magistero Ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere
nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano
consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione
rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera
di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella
affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico,
potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.
Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del Magistero ecclesiastico costituiscono con lo
stesso la «LOGICA» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali
contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare
che sono espressamente condannati nella enciclica «Pascendi» di S. Pio X. nonché nel suo Decreto
«Lamentabili»; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici
della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultman, sentono con
indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della
rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.
Naturalmente trattati senza freno i Principi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina
ecclesiastica.
Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la
verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in
breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non
si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse
accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa —
questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si
fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le
altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di varie lingue, dei quali fu pieno l’aer e
che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e
l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della
certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se
non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di
Teologia, il tedesco Padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre con ragione: «Credo Deo Revelanti et
non theologo opinanti!».
2. Il «sociologismo»
Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non
sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle
azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del
benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo
mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di
beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi
dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi
nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura
della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male
favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale o di rosso sia
sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia
insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione
materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse
seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi,
forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura
persino delle parole!
Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per
fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La
sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana
della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente
smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo
applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via
brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono
arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per
portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe,
distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non
piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza
eterna?
3. La nuova storiografia
Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se
giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero San Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi
«cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.
La parte maggiore della produzione — ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni — pare
obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai, che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa — detta per l’occasione postcostantiniana — avrebbe fatto con continui voltafaccia,
alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri
ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati
dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1972 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante
pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di
Cristo. Questa conclusione — tutti lo vedono — costituisce il fondamento per distruggere il più
possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro,
Martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
— le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre
gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
— il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla
obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli
hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.
Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono
rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di
distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la
indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi
galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha
difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, chi ha imposto ai renitenti la disciplina
ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!
Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la
vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe,
come se queste non potessero mai essere chiuse.
È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!
4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti. È questo un caposaldo d’obbligo del
progressismo.
Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia
del progressismo ecclesiastico moderno.
Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano
secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto
felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della Divina Tradizione ed avessero
spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo. Quei due interventi, consci o no di portare
l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli
avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno
fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era
entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli
«Imprimatur». La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata
comune. Eccone i punti.
— La filologia, la archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum
delphini), ma SOPRATTUTTO le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai
quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le
ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce
il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il
Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle
quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad
un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può
essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture,
comparata con le Scritture e con la Divina Tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal
Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama
«PROGRESSO», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è
ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione
della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio.
Niente di più logico e di più ovvio.
Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è
in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta
riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi
ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di
Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado
di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di
assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole
«sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome
di «progressismo».
5. Le allegre «teologie»
Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro,
dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di
Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate
di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi
caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.
Queste sono vere «Teologie», anzitutto?
È «Teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle Fonti Teologiche. Quando le
affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo
Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste
Teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo
protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente
proprio.
In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è
nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste
teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.
— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e
pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto
oggettivo e permanente.
— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno
secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo,
derivando da un principio messo dal cristianissimo e devoto Mounier, di fatto si ispira al marxismo,
del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi
più o meno stanchi assertori.
Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce
potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere
— con altre cose — una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale
apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che
cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie Teologie delle quali
abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al
tutto insoddisfatti.
Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e
ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
E questo è grave. Infatti.
La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della Rivelazione Divina e, senza forzature o
deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme
pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente
di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la
logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti.
Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che
documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi princìpi del buon senso umano,
nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la
parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non
aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha
accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di
calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.
Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non
permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode
transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni»
estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla
fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che
possono dare ansa al genio di molti Santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.
6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie.
Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti
i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a
quello il Messaggio Cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della
Rivelazione divina.
Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale
nessuna persona colta crederà più.
Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto
di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, si da permettere sempre
una tempestiva ritirata strategica.
Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli
del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o
male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i
«placita» di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro
tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono,
comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che
cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è
bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.
La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo
cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è
tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto.
Non eresia, ma anche apostasia!
Con tutto questo non si esclude affatto, che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero
possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto
accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto
meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del
proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela
troppo vergognosa per gloriarsene.
7. Il rifiuto della apologetica.
Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende
logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando
smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste
verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede
devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa
(Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione
di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare
degli elementi di prova.
Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna,
quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una
dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa
onesta capacità che il Vangelo di Matteo — come gli altri — ha di farsi precedere dalla più rigorosa
documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo
a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora
abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo
sapeva.
Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da
studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del
modernismo latente sotto la cenere.
Il silenzio in fatto di Apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi
ritiene sempre necessaria la Apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della
mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà
che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della Apologetica ne è la
manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può
venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?
8. La riabilitazione degli eretici.
Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è
altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati
difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge
dalle ceneri con l’aria di dire: «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di
autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati
abitualmente al posto di Sant’Agostino e di San Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti
quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.
Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi
persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini
che la conducono fa al tutto difetto.
Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del
Magistero Ecclesiastico, per colpire il Magistero Ecclesiastico; si magnificano i distruttori della
disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed
ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici.
Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto
a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.
Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a
modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli
che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri
comodi. I peggiori!
Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro
e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso
spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.
9. L’antigiuridicismo.
Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano
e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo
loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite
spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone per bene
abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e
fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e
regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare
qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile.
Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole
più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice
variazione lessicale.
Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato
anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo
è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si
scarica sulla «base».
Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al
giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una
debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei
gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo,
anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita
sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della
violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?
Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice
di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non
era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino
ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una
«Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una
mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E
pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina»
libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio Catechismo dalle idee
chiare e precise!
10. La crociata antitrionfalistica.
Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla
quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.
L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento.
Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si
vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del
suo dovere, fa del trionfalismo.
La Fede, i Sacramenti, il Divin Sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi.
Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli
occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la
maestà di Dio, la infinita importanza del Santo Sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del
trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni
liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della
vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che
disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione
sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla
Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente
deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta. Chi ha pronunciato per primo la disgraziata
parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti
psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di
gusti.
Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un
termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel
conformismo col quale si accettano e osservano — non le Leggi liturgiche emesse dalla legittima
Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di
qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le
bande dei suonatori.
11. La indisciplina endemica.
Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori
dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo
sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi
ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella
successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno
preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica
di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A
ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è
aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine
ecclesiastica del Clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative
culturali innumerevoli.
Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione
permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore
ormai confinato nelle nebbie.
Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in
grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito.
Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da
Gesù Cristo.
Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli
stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è
buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il
catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di
Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si
irride o la si tratta come se fosse risibile, la Santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è
progresso!
12. La bassa quota.
Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il
termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente,
perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un
modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.
Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico
descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno
tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va
da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo
quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
Nel Clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da
crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che
l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi
porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito
normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una
testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo
momento il pericolo più grave per il clero è quello di SCOMPARIRE. Sta scomparendo, perché
tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo
anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse
che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato
a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica
distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la
Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e
massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce
come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno
mano a tutto questo.
Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha
costituita, costituisce BENEMERENZA PROGRESSISTA.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei
più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi «detti magari di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a
movendo, tanquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del
parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del
progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette
l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.
Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza
plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma
praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto
per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della Santissima
Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la
Santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate
ha reagito.
Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai
quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari
ammannendo discussioni sul sesso.
Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché,
orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio’
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del
sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza.
La via dell’inferno.
CONCLUSIONE
Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi,
quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo
va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche, che rinnovano l’organismo,
ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la
parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di
vita degli spiriti migliori.
Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.
La dittatura dell’opinione
1970
(Da «Renovatio», VI (1970), fasc. 4, pp. 477-490)
Il presente testo ha il carattere di resoconto di una conversazione e non è propriamente una
intervista. Non si sono richieste al cardinale tanto delle indicazioni su un argomento determinato
quanto una visione d’insieme. Le domande, piuttosto che interrogazioni, sono mezzi per rendere più
viva l’esposizione di un pensiero e per consentire uno svolgimento connesso alle problematiche
correnti.
RENOVATIO — Esiste, secondo V. E., un rapporto tra la situazione presente della società umana
nel suo complesso e quella della Chiesa? Vi è un rapporto tra le difficoltà presenti della religione e
quelle dell’umanità?
SIRI — Come sarebbe possibile diversamente? La Chiesa non vive separata dal suo tempo e dal suo
mondo. Le difficoltà che l’uomo sperimenta oggi a vivere da uomo si ripercuotono nella difficoltà
che il cristiano incontra a vivere da cristiano.
Il mondo odierno vive della conquista della materia: anche se la scienza gli rivela che la sapienza e
la potenza dell’ordine creato superano da ogni parte la capacità di previsione della ragione, l’uomo
si trova però chiuso nella struttura mondana che egli si è costruito. L’uomo ha scoperto di poter
conquistare la materia, di poterla rendere strumento della sua volontà: ciò gli ha tolto il senso di una
superiore prudenza e ha fatto della conquista del mondo il saccheggio del mondo, la perdita della
realtà umana più profonda: lo spirito.
La spirito è pietra angolare dell’uomo e del mondo: pure esso è la pietra che i costruttori della
nostra società presente hanno voluto dimenticare e respingere. Siamo giunti così in un mondo in cui
la persona umana non ha valore perché l’uomo non ha più significato, e non è più considerato
l‘immagine di Dio.
Quando gli uomini fecero le loro prime scoperte, vi fu un senso di superbia e di assoluto predominio
dell’uomo sul mondo: è ciò che ci viene narrato nel racconto della torre di Babele, una visione
profonda della dialettica della civiltà. Dio confuse allora le lingue. Ma oggi le menti stesse degli
uomini sono confuse. L’ora del massimo della potenza è l’ora oscura, in cui la sapienza mondana
non sa che prefigurare la crisi definitiva dell’umanità. Ma i cristiani sono figli della speranza.
RENOVATIO — Ogni realtà mondana è giustificata da quelle che san Paolo chiama le filosofie di
questo mondo. Quali sono le filosofie dell’attuale potere mondano?
SIRI — La prima e fondamentale dottrina del potere di questo mondo è l’affermazione: non c’è
verità. Sant’Agostino diceva che la differenza tra la civitas mundi e la civitas Dei è che la prima ha
mille opinioni, la seconda una sola verità. La differenza principale tra le due città non sta sul
contenuto, ma sull’esistenza della verità. Basti ricordare il drammatico dialogo tra Cristo e Pilato,
circa la verità ed il regno. Se non c’è nulla di vero, allora l’unico principio che conta è l’utile.
Filosofie diverse confluiscono tutte in questa direzione.
Possiamo elencare, nel nostro mondo europeo, i reliquati del pensiero hegeliano. La sostituzione
della Chiesa con l’umanità è uno dei motivi costanti di tanta letteratura, che si etichetta di cattolica.
All’uomo, spirito e persona, si sostituisce l’uomo collettivo. L’uomo collettivo è una eredità dello
Spirito assoluto, via Feuerbach-Marx. Un altro principio della cultura mondana moderna è il
freudismo, ma un freudismo dimezzato. Si è dimenticato il senso della morte, ed è rimasto solo il
sesso. Il freudismo è divenuto moneta corrente come affermazione dell’identità fra l’umanità e la
sessualità, come tesi della pansessualità dell’uomo. Così la psicoanalisi è monetizzata nella cultura
di massa solo in senso materialistico. La cultura di massa è poi in concreto asservita ad interessi ben
precisi, rappresenta una selezione precisa di un’immagine d’uomo senza profondità perché senza
spirito. L’uomo è considerato come una passività pura, indefinitamente manipolabile da un efficace
sistema di persuasori occulti. Ma per manipolare compiutamente l’uomo bisogna togliergli fiducia:
e dunque togliergli il senso della realtà di sé come spirito e della realtà di Dio.
A ciò si sono prestati quei teologi della cultura di massa che hanno lanciato lo slogan della morte di
Dio con il medesimo tipo di diffusione di un prodotto commerciale. Ma il Vangelo ha detto: non si
può servire Dio e Mammona: Dio e il lucro: Dio e il mito del potere materiale.
RENOVATIO — Possiamo dire che esiste una tecnica per sostituire alla verità l’opinione, per porre
il gusto dell’opinabile al posto del desiderio del vero?
SIRI — Tale tecnica esiste ed è collaudatissima: basta dare un’occhiata all’attuale pubblicistica
religiosa, letteraria, filosofica. Si tratta di esprimere opinioni così cautamente formulate che non si
possa capire qual è la tesi dell’autore: o meglio ancora: in modo che dottrine intellettualmente
contraddittorie vengano giustapposte l’un l’altra, come se fossero tra di loro compatibili.
Ritorniamo allo slogan della morte di Dio. Se si dicesse negazione di Dio, tutti capirebbero. Ma ci
troviamo di fronte a un’operazione molto sofisticata, che vuol dare l’impressione di salvare la più
distillata e preziosa quintessenza dell’idea di Dio pur nella sua «identificazione» con la realtà
profonda dell’uomo. Prendiamo un’altra frase famosa: «Quando Dio vuole essere non Dio, l’uomo
nasce». Cosa vuol dire questa frase di un leader massimo delle attuali opinioni teologiche?
Rigorosamente parlando, nulla. Essa certo non vale l’espressione dell’uomo «immagine di Dio».
Ma dà l’impressione di nascondere qualche misterioso segreto sui rapporti tra divino ed umano che
la dottrina della creazione sembra tenere velato e inespresso.
Abbiamo scelto esempi di livello sofisticato. Ma poi potremmo continuare con questa teologia piena
di aria fritta. È una manipolazione del linguaggio in modo che si alluda ad eldoradi nascosti del
pensiero invece di esprimere chiari e distinti concetti. Restiamo sul campo teologico. Qui abbiamo
diffuso a livello universale le espressioni di conservatore e di progressista. Chi è conservatore?
Colui che è contro i progressisti. Chi è progressista? Colui che è contro i conservatori.
RENOVATIO — Ma esistono i conservatori e i progressisti?
SIRI — Nella forma di questo linguaggio favolistico, no: sono delle creazioni fittizie, delle parole
che debbono velare diversi e più gravi problemi, creando una dialettica di comodo che serve per
concrete operazioni pratiche.
Noi qui non abbiamo che una nuova forma della tecnica del relativismo: riducendo ogni questione
dottrinale negli schemi di destra e di sinistra, tutto si relativizza, tutto diviene questione di opinione
e mezzo di potere. Il tale è conservatore? Abbiamo capito tutto. È progressista? Abbiamo capito
tutto. La relativizzazione della verità e della dottrina è il vero scopo di tale esposizione arbitraria
degli attuali problemi della Chiesa. Ed il relativismo è la condizione per la manipolazione
dell’uomo, per la sua riduzione nei limiti della materialità pura, nella mitizzazione del suo comodo
e della sua utilità: che è la via della sua servitù, della sua tristezza, della sua angoscia, della sua
noia, della sua follia.
RENOVATIO — V.E. ha detto altre volte del problema della salute mentale come di un problema
dell’uomo d’oggi.
SIRI — Certo: perché il disordine dello spirito diviene immediatamente il disordine della psiche e
dei nervi. È curioso che a tanto materialismo corrisponda una singolare indisponibilità a valutare le
conseguenze neurologiche del disordine spirituale. Proprio della parte più nobile dell’uomo è di
risentire per primo che le tenebre sono la monte, sono la decadenza della vita.
Sarebbe curioso cercare le ragioni che inducono a dimenticare le precise statistiche, nei Paesi che le
fanno, sulle dimensioni della crisi mentale. Non è questa la civiltà del tranquillante e dello
psichiatra? Non si vuole riconoscere il rapporto tra disordine spirituale e disordine psichico e
nervoso. Perché? Forse in nome del materialismo? No: vi è piuttosto qui la congiura del silenzio
verso un problema imbarazzante.
RENOVATIO — V.E. indica una situazione di crisi globale dell’umanità: la sostituzione
dell’opinione alla verità conduce al «deperimento» dell’umanità, ad una situazione paradossale di
potenza e di alienazione ad un tempo. Se dovessimo chiedere, in forma riassuntiva, qual è la parola
cristiana di cui ha particolare bisogno questa situazione storica dell’umanità, quale parola
sceglierebbe V. E.?
SIRI — Non vi è dubbio: la Croce.
RENOVATIO — Non sono certo le croci che mancano oggi agli uomini.
SIRI — Non sono la croce di Cristo. Anche se ogni dolore porta misteriosamente frutto, è un
messaggero di Dio, non è ogni dolore che libera: è il dolore sopportato nella croce e sulla croce di
Cristo: è la sofferenza redentrice. Questa è pace, gioia, serenità. Ricordo le parole di Chesterton.
Egli si domandava che cosa il Signore nascondesse ai suoi discepoli quando si ritirava a pregare con
il Padre. Rispondeva: la sua gioia, la sua immensa gioia. Eppure la croce gli stava dinanzi: ma era la
croce dell’amore del Padre, era la croce di vita.
Noi non siamo i predicatori del benessere per il benessere: e nemmeno i diffusori di esso. Dio
provvede ai suoi figli. Ma noi abbiamo le parole di vita eterna: queste dobbiamo dare. Di queste
l’uomo ha bisogno. Le sue sofferenze sono spesso strumento di speculazione e di menzogna, magari
in buona fede: di questo non dobbiamo dimenticarci. La vita religiosa è una testimonianza della
croce del Signore: quando la povertà diviene occasione di abbondanza e l’obbedienza occasione di
fare il comodo proprio, la vita religiosa si estingue.
RENOVATIO — Questa parola è dura per l’uomo formato alla ideologia del benessere...
SIRI — Certo, è dura. Non mancano i critici del benessere oggi: ma essi stessi vengono poi catturati
dai mezzi di diffusione della civiltà del comodo e del confort e diventano arredi pseudospirituali di
questa stessa civiltà, l’ossigeno che ci vuole per sopportarla, per lasciar sfogare in parole tensioni
impotenti di rivolta...
Comprendo quel che c’è di buono nei critici del benessere: tuttavia essi accettano l’immagine di un
uomo senza significato, di un futuro che non vince la morte, di una persona che ha senso solo nel
presente e nella società umana. Perciò essi non possono far nulla.
RENOVATIO — L’ideologia del benessere è soprattutto un’immagine dell’uomo imposta dai
mezzi di comunicazione sociale.
SIRI — Questo è il punto: l’immagine dell’uomo senza profondità e senza significato, dell’uomo
senza spirito e senza Dio è diffusa oggi da una catena imponente di mezzi di diffusione del
pensiero, che impongono con la forza del loro apparato la loro immagine del mondo come se fosse
la realtà stessa. L’uomo è solo, lo spirito in lui testimonia di sé e di Dio come verità private, ma i
mezzi di comunicazione sociale gli impongono un uomo che non ha futuro, un uomo che non ha
altra prospettiva che il piacere del giorno per giorno. L’uomo viene così condotto alla disperazione,
perché il piacere, colto giorno per giorno, svanisce giorno per giorno.
RENOVATIO — C’è una parola del Vangelo di Giovanni cui si adatta la descrizione di oggi quale
V.E. ce la offre: il potere delle tenebre sugli uomini.
SIRI — Si, il Vangelo descrive ogni tempo, anche il nostro, la parola del Vangelo è sempre vera e
attuale: la sua diagnosi come la sua risposta... Il potere delle tenebre conduce l’uomo alla morte...
Un convegno internazionale a Strasburgo ha dichiarato che il deterioramento del pianeta, dell’aria,
dell’acqua, conduce l’umanità al suicidio. Ma chi imporrà legge agli interessi, alla caccia del lucro?
Si provi a toccare una sola fabbrica chimica: l’immagine del benessere che rischia di essere toccato
per un motivo di sopravvivenza comune farebbe sollevare interessi economici, muoverebbe intere
popolazioni. Eppure si tratta della vita della umanità presente, di quella futura... Tanto
umanitarismo tecnico non riesce a convincere il singolo a fare un sacrificio se non è imposto, la
salvezza è affidata alla burocrazia, perché senza disposizione al sacrificio non vi è più creatività
umana, storica e civile, non vi è più spontaneità né libertà. Io dico che l’immagine dell’uomo senza
profondità, senza spirito, senza Dio, è l’immagine della morte. Il peccato è la morte. Le verità della
Scrittura stanno diventando verità della esperienza sociale, pratica quotidiana...
RENOVATIO — Ma la Chiesa parla oggi all’uomo della croce che è vita e liberta?
SIRI — La Chiesa, sì: se qualcuno si avvicina ai beni divini che la Chiesa indefettibilmente
custodisce, trova parole di vita eterna. Ma tanti cristiani sono coinvolti nella crisi stessa
dell’umanità, sono portati ad adorare anch’essi l’idolo dell’uomo senza profondità: da destra e da
sinistra, in nome del benessere o in quello della rivoluzione. Nella nostra stessa vita ecclesiastica si
lamentano talvolta fenomeni paralleli a quelli della vita sociale nel suo complesso. La dittatura
dell’opinione in cui viviamo si ripercuote anche nella vita ecclesiastica. Un’editoria pronta soltanto
a sollecitare il fantastico, l’inaudito, l’irreale, a criticare il passato perché passato e a prevedere un
futuro di sole luci, di totali vittorie dell’umanità, obbedendo in ciò alla legge della imposizione del
prodotto, della ricerca del consumatore, cioè a motivi di lucro, è oggi una delle piaghe anche nella
Chiesa.
Oggi, ogni teologo che passi per iconoclasta, liberatore, innovatore, è subito captato da un’editoria
compiacente, che diffonde per tutti i canali dei mezzi di massa questo dissenso confortevole, questa
iconoclastia per amor del comodo e del successo. Il divismo di teologi, di scrittori, di figure della
protesta: ecco un dolore, una sofferenza per la Chiesa di oggi: coloro che denigrano il passato della
Chiesa per affermare che è proprio dal rinnegamento di esso che la Chiesa riemergerà più autentica.
RENOVATIO — Per qualificare il tipo di errori oggi correnti si è ricorso a due paragoni: al
modernismo e alla gnosi. Si è parlato anche di «protestantizzazione». «Renovatio» ha preferito il
termine gnosi per indicare la separazione delle verità naturali (e veterotestamentarie) da quelle
evangeliche. Il dire, per esempio, che non esiste legge naturale, che i limiti e le pene che l’ordine
presente impone non risalgono a Dio, il negare la pena e la sanzione divina al peccato umano sono
tesi che oggi costituiscono il sottofondo, sempre più esplicitamente espresso, di tanta letteratura
teologica. Ciò ci pare una nuova gnosi.
SIRI — Comprendo benissimo le ragioni di questa espressione: e credo che si possa legittimamente
qualificare di gnosi il complesso di errori oggi ricorrenti visti nella loro sistematicità. Ma credete
voi che i più sappiano il significato di quello che dicono? Questo è il terribile: che non sanno quello
che dicono.
Ciò che viene scelto spesso lo è non per un motivo razionale (sarebbe ancora una affermazione di
verità), ma unicamente per conformismo al mondo. La potenza mondana ha una sua filosofia: e i
teologi del giorno che passa accettano di tradurre le opinioni del tempo in linguaggio teologico, non
perché accettino una dottrina come tale, ma soltanto perché accettano le dottrine che piacciono alle
potenze di questo mondo.
La gravità di questo tempo rispetto agli altri è questo: che non si tratta più di contrasto tra verità ed
errore, ma tra verità e non verità, tra ordine della verità e dittatura dell’opinione. Gli uomini si
ritengono liberi: è questa loro opinione, di essere liberi perché è scritto nei testi giuridici, il massimo
momento e manifestazione della loro servitù. In realtà molti vivono sotto una dittatura: la dittatura
dell’opinione.
RENOVATIO — Anche la Chiesa è sotto una dittatura dell’opinione?
SIRI — La Chiesa, no; ma molti che sono nella Chiesa, sì. La Chiesa non può mai essere violentata
nella sua libertà senza che lo Spirito Santo susciti potenti reazioni. A un livello notevolmente
diverso e più particolare, possiamo considerare i pontificati diversi e talvolta reattivi tra di loro.
Nella diversità, Dio fa l’unità.
La bufera che si scatenò attorno al Concilio non fu voluta da papa Giovanni, che ne soffrì
profondamente; ne sono personale testimone. La vera grandezza cristiana di Giovanni XXIII fu nel
modo sereno e cristiano con cui, misurando pienamente la gravità e l’imponenza dei problemi,
accettò umilmente la sua croce sino alla morte.
RENOVATIO — Nell’età di massa, la Chiesa può essere, è chiamata ad essere il supremo presidio
della libertà: il pulpito è infondo l’unica tribuna libera del mondo, se si vuole che lo sia.
SIRI — Il dramma è che tanti non capiscono nulla del loro tempo. L’uomo è oppresso dalle
strutture di Mammona, fortificate dalla filosofia del nulla: oppresso dalle potenze di questo mondo,
dai loro miti. La Chiesa non è con il mondo: la Chiesa è con l’uomo, essa è la voce della libertà,
della libertà che nasce dallo Spirito Santo. La Chiesa non può essere là dove regnano le forme
ciniche o quelle eversive e nichiliste dei padroni di questo mondo e di questo tempo. Ma questa è
una vocazione mirabile per la Chiesa: in questa vocazione opera la potenza dello Spirito Santo. Nel
momento in cui tutto umanamente sembra perduto, allora è il tempo dello Spirito Santo: che
conduce al nulla i potenti di questo mondo e trova vie impensate per mostrare agli uomini la
divinità della Chiesa, della sua opera di santificazione e di santità.
RENOVATIO — Possiamo riassumere così la visione che V.E. ha della crisi della società umana
cosi come della presente situazione ecclesiale: vi è una realtà umana che i mezzi di comunicazione
di massa non dominano, vi è una vita cristiana che la dottrina dell’opinione non corrompe?
SIRI — La realtà che conta è sempre la realtà profonda, quella che la dittatura dell’opinione nega
perché non riesce ad afferrarla. La presente situazione della Chiesa è una delle pin gravi della sua
storia, perché questa volta non è la persecuzione esteriore a impugnarla, ma la perversione
dall’interno. Più grave. Ma le porte dell’inferno non prevarranno.
RENOVATIO — Tuttavia vi sono mezzi e provvedimenti che possono essere oggetto di desiderio
dei fedeli: può indicarne V.E. eventualmente qualcuno?
SIRI — La cosa più urgente è restaurare nella Chiesa la distinzione tra verità ed errore. Talvolta
sembra riecheggiare come dominante il dibattito teologico la domanda di Pilato: che cos’è la verità?
Occorrono atti che sfatino la legittimità della dittatura dell’opinione, questo terribile potere di fatto
che limita e coarta il potere di diritto. Siamo al punto in cui qualunque esercizio dell’autorità
ecclesiastica è considerato abuso nei confronti della libertà. Come se l’autorità fosse la negazione
della libertà! Mille poteri illegittimi coartano ben più gravemente e ben più sistematicamente la
coscienza e la libertà delle persone sul piano immediato, mentre sul piano più profondo le separano
dalla verità, espressa nelle fonti della Rivelazione e nel Magistero. Io spero che le giuste e
autorevoli distinzioni verranno.
RENOVATIO — Quando si parla di un ritorno ad una condanna formale di proposizioni, si dice
che ciò non è conforme alla natura pastorale dell’autorità nella Chiesa. E si dice anche che ciò
potrebbe dar luogo a scismi.
SIRI — La pastorale non è l’arte del compromesso e del cedimento: è l’arte della cura delle anime
nella verità. Quando questo è stato detto tutti hanno capito: anche, e soprattutto, quelli che hanno
deformato o criticato. Il linguaggio del buon pastore è all’opposto di quello che dicono alcuni
teologi del momento.
Non credo a possibilità scismatiche. Coloro che usano della loro funzione ecclesiastica per
sovvertire la Chiesa contano, in realtà, innanzi agli occhi de mondo solo perché esiste quella Chiesa
che essi intendono demolire in nome della «Chiesa futura umanità».
Poi ci sono tanti segni, soprattutto fuori d’Europa, che indicano che i demolitori della Chiesa hanno
fatto il loro tempo. Posso ricordare qui, come esempio, il contegno della Chiesa africana, che ci
ricorda nel nome la grande funzione della Chiesa d’Africa nel III, nel IV e nel V secolo. Essa è un
conforto per la Chiesa universale e per il pontificato romano.
RENOVATIO — La liturgia stessa è oggi oggetto di contestazione e di negazione: basti pensare
alla underground Church, alla messa senza paramenti, a vari aspetti che tendono a diminuire il
carattere sacrale e sacrificale del culto cristiano. Sacro e sacrificio sono parole esorcizzate da molti.
SIRI — Vi sono questi aspetti più gravi, che sono la conseguenza, sul piano liturgico, di radicali
errori dottrinali. Si faccia della liturgia, ma della liturgia non si facciano deformazioni abusive.
Oggi si rivelano pericolose perdite nell’essenziale. Il sacro non è soltanto il rito: è la presenza nel
rito della realtà significata. Quando si mitizza il rito, si perde il senso della sostanza che contiene.
Non ci si meravigli poi che l’Eucarestia divenga per taluni una semplice festa dell’unità umana, in
cui Dio è semplicemente spettatore. Qui, siamo non alla eresia, ma alla apostasia.
RENOVATIO — Potrebbe V.E. accennare ad una tematica che oggi sembra nodale nell’attenzione
teologica: l’ecumenismo?
SIRI — L’ecumenismo del decreto conciliare è perfetto. Ma esso è diventato oggi per taluni il
luogo classico dell’equivoco. Coloro che amano le idee imprecise, gli adepti della dittatura
dell’opinione sono tutti diventati dottori ecumenici. Il problema ecumenico non è un problema di
cui si intraveda facile soluzione. Ma esso diventa facilmente una occasione di cui ci si serve per
appannare l’integrità cattolica. Abbiamo visto che l’ecumenismo è da taluni citato addirittura come
un luogo teologico, in senso proprio. Cosa vuol dire? Che la dottrina cattolica deve essere
discriminata secondo l’opinione meno sgradita all’insieme delle comunità cristiane? Un recente
noto saggio ecclesiologico sembra strutturato secondo questa dottrina dell’ecumenismo come luogo
teologico. Io non riconosco in saggi del genere il carattere cattolico.
RENOVATIO — V.E. vede segni autentici di un rinnovamento della Chiesa?
SIRI — Noi siamo in un tempo di prova: e nei tempi di prova è più facile vedere la tenebra che la
luce. Ma la luce è presente: la potenza stessa della tenebra è un mezzo di purificazione perché siamo
fatti più capaci di vedere la luce. Le tenebre non possono vincerla. Noi sappiamo che il Signore
conduce le cose in bene: ed usa le sofferenze e gli stessi peccati degli uomini perché ne risulti un
bene pin grande.
Quando cento anni fa cadde il potere temporale, il Papa sembrò prigioniero. «La fine del papato»,
strillavano i modesti mezzi di comunicazione sociale d’allora. Stava invece per cominciare una
grande stagione del papato. E la stessa perdita del potere temporale vi contribuì. Non che noi
dobbiamo salutare i politici di allora come dei liberatori della Chiesa: è che Dio usa delle opere di
tutti per il bene del suo popolo, che è il bene di tutta l’umanità. Sarà così anche domani: delle nostre
difficoltà, si considererà soltanto la luce. La nostra umana debolezza, l’isolamento, il senso di
sconfitta apparirà cambiato dalla potenza di Dio, in segno della gloria della sua città. È nella luce
della croce del Signore che la notte diviene luminosa. Non sono un pessimista, solo rilevo che il
tempo si è fatto scuro perché l’ombra del culto delle cose materiali si stende sul mondo. Ho sempre
notato che in genere gli errori teologici derivano da inquinamenti marxisti. È una storia lunga. Ma
finora non ho trovato sulla mia strada uomini cosi puri nella fede come quelli che hanno
esperimentato nella vita quella teoria. Sono stati vaccinati.