.....Quando non è possibile parlare alla gente di Dio, si può
sempre parlare a Dio
della gente, ossia pregare.....
Carissimi sacerdoti e
diaconi, iniziamo il nostro ritiro d’Avvento ringraziando innanzitutto il
Signore di quest’opportunità:
trascorrere insieme una mattinata in preparazione al santo Natale con
la possibilità d’accostarci
al sacramento della penitenza.
Lo stare insieme del
Vescovo con i presbiteri e i diaconi per pregare è già, in sé, una vera
grazia. Viviamo
queste ore con questo spirito. Chiediamoci poi: come vivere il tempo d’Avvento
in
questo Anno della
Fede?
La risposta non può
prescindere dalla nostra identità sacerdotale e diaconale. Per grazia
abbiamo ricevuto il
sacramento dell’ordine che ci abilita a compiere i gesti propri di
Gesù-caposposo
e di Gesù-servo del
Padre e dei fratelli. Solo guardando a quello che siamo diventati, in forza
di questo sacramento,
possiamo dare risposta alla domanda: come vivere il tempo d’Avvento in
quest’Anno della
Fede?
La liturgia della
Chiesa, all’inizio dell’Avvento, propone una preghiera che ci conduce
subito a fare un
esame di coscienza molto concreto. Mi riferisco all’orazione dei primi Vespri
della
prima domenica d’Avvento.
E’, quindi, la prima
orazione del tempo d’Avvento che poi ritroviamo come colletta nella
santa Messa della
prima domenica di questo breve ma importantissimo tempo liturgico: “O Dio,
nostro
Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo
Cristo che
viene,
perché ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli”.
Il punto è proprio
questo: quali sono le opere buone con cui il vescovo, il presbitero e il
diacono vanno
incontro al Signore che viene? Non si tratta di opere genericamente intese ma
delle
opere proprie del
vescovo, del presbitero, del diacono. Bisogna essere chiari: la santità non può
prescindere dalla
fedeltà alla propria vocazione personale, non può essere mai al di fuori di
essa.
Anche per noi,
ministri ordinati, assume grande valore la parabola del Seminatore (cfr.
Mc.
4, 1-20). Intendo
dire che anche noi - vescovi, presbiteri, diaconi - possiamo essere terra “buona”
o
terra “non buona”
proprio in rapporto agli atti specifici del nostro ministero. Andiamo al testo
della
parabola che leggiamo
nella versione dell’evangelista Marco1.
La lettura e
spiegazione della parabola ci ricordano che anche i vescovi, i sacerdoti e i
diaconi sono - agli
occhi di Dio, che vede come Lui solo può - terreno “buono” o terreno “non
buono”, capace o non
capace di dare frutto. Possono essere terra fertile che produce il trenta, il
sessanta o il cento
per uno oppure selciato, pietraio o roveto improduttivi.
Si può essere
diaconi, sacerdoti, vescovi ma - come ci ha ricordato la parabola - essere
distratti, dissipati
e incapaci di darsi una regola di vita. Sono gli atteggiamenti che la parabola
identifica con la
strada, luogo della dissipazione e del vuoto chiacchiericcio, terreno dove il
seme
appena gettato viene
portato via e non può attecchire.
Ogni tipo di rapporto
e legame spirituale e pastorale del ministro ordinato nasce e si sviluppa
a partire dalla
relazione personale col Signore Gesù: in stretta connessione con essa, non al
di fuori
o contro di essa. Ma
se il rapporto personale con Gesù si attenua, o addirittura viene meno, si crea
un vero e proprio
corto circuito e, in tal modo, l’efficacia del ministero viene vanificato. E
ciò vuol
dire che già prima si
era smarrita la percezione della propria consapevolezza o identità sacerdotale.
In tale situazione
non potremo farci carico in modo valido - ossia col giusto coinvolgimento
e giusto distacco -
di quell’umanità dolente che quotidianamente incontriamo, passo dopo passo,
sulla nostra strada.
Questi incontri
richiedono saggezza e insieme capacità di discernimento, doti che si
acquistano nel
prolungato contatto col Signore, nella preghiera, nella lectio divina,
nel silenzio
interiore ed
esteriore. Si può leggere, in proposito, il cosiddetto “Discorso tenuto da san
Carlo,
vescovo, nell'ultimo
Sinodo” (cfr. Breviario IV volume, Ufficio delle Letture, Seconda lettura della
Memoria di san Carlo
Borromeo).
Maria - la Regina
apostolorum, che custodiva ogni cosa nel suo cuore (cfr. Lc 2,19.51) -
diventa il nostro
comune imprescindibile riferimento. Lei è la zolla di terreno fecondo; noi,
invece,
siamo non di rado il
terreno sassoso della parabola che non permette alla pianta, per mancanza di
terra, di buttar
fuori radici capaci di attecchire.
Si può essere
vescovi, preti, diaconi essendo testimoni veraci e sinceri del proprio
episcopato, presbiterato
e diaconato. E allora si è benedizione per il proprio popolo. Ma se la logica
umana prende il
sopravvento sul servizio delle anime e alla Chiesa, ci si scopre sassi
improduttivi.
In proposito,
ricordiamo che le promesse dell’ordinazione non ci sono state imposte ma,
dopo anni di
discernimento e preparazione, ci sono state proposte e noi, in quel momento, le
abbiamo accolte
liberamente e con gioia, non come costrizione ma con lo spirito di chi avverte
l’aprirsi di un nuovo
orizzonte di senso nella vita. Sì, un nuovo orizzonte di senso nella propria
vita.
I legami umani - che
impropriamente possono impadronirsi di noi, all’inizio in modi anche
impercettibili, e
vincolarci a persone e a beni materiali - finiscono così per soffocarci. Ciò
avviene
quando si smarrisce
la logica del dono e non si compie più, come Maria, l’offerta della propria
persona semel et
semper.
La mancanza di questa
totalità nel dono può essere l’inizio del venir meno. In san Giovanni
della Croce troviamo
questo esempio significativo: un uccello - anche se è libero da tutto ma è
legato ad un
sottilissimo filo di seta - non può spiccare il volo in alcun modo, anche se c’è
solo quel
sottile filo... Prendiamo
occasione oggi di rinnovare, di fronte al Signore, la nostra piena totale
offerta a Lui,
attraverso le promesse sacerdotali.
Vigiliamo perché ogni
nostro incontro inizi sempre nel Signore, in Domino, e rimanga tale,
in
Domino, così da non rimanere soffocati come il seme caduto tra i rovi e
le spine.
Se la dissipazione,
la superficialità e i legami impropri dovessero segnare la vita del
vescovo, del
presbitero, del diacono - mandati per essere segno di Gesù buon pastore e
servitore in
mezzo ai fratelli e
alle sorelle - allora quella dissipazione, quella superficialità e quei legami
impropri
rivestirebbero un’odiosità molto più grande.
Quanto il Santo
Curato d’Ars era solito dire - parlando del parroco - ha oggi per noi tutto il
suo valore,
particolarmente all’inizio di quest’Anno della Fede: “Un buon pastore,
secondo il cuore
di
Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia e
un dono dei più
preziosi
della misericordia divina”.
Sì, noi - in quanto
vescovi, presbiteri e diaconi - siamo il grande dono fatto dal cuore di Dio
alla nostra gente, al
di là di ogni nostro merito e consapevolezza. Non veniamo meno nel nostro
essere dono alla
comunità a cui siamo mandati. Interroghiamoci, su questo punto, alla fine di
ogni
nostra giornata.
Così il vescovo, il
prete e il diacono sono chiamati e mandati, secondo la loro specificità, per
essere, per la loro
gente, terreno “buono”: ossia non dissipati, non superficiali, non legati in
modo
improprio a persone o
a beni materiali. Sì, terreno “buono” innanzitutto in ciò che ci identifica
come
vescovi, preti e
diaconi in vista del ministero ecclesiale e capaci di compiere gli atti propri
di Gesùsposo-
capo e di Gesù-servo.
Essi, allora, devono
domandarsi all’inizio di quest’Anno della Fede - e particolarmente nel
periodo d’Avvento -
se riescono ad essere, col loro ministero, aiuti veri e reali per la fede delle
loro
comunità e dei
singoli membri che le compongono. Sì, siamo chiamati ad essere cooperatori
della
loro gioia, ossia
della loro fede.
Chiediamoci, quindi,
se realmente aiutiamo, col nostro ministero, i fratelli a crescere nella
vita di fede: la
nostra predicazione nasce dalla preghiera? E il sacramento della penitenza è
annunciato e
celebrato in modo attento e disponibile nella nostra parrocchia?
I ministri ordinati,
costituiti nei vari gradi dell’ordine, sono chiamati innanzitutto a essere
cooperatori della
grazia divina, ossia della misericordia e della tenerezza condiscendente di Dio
verso le anime.
Sappiamo, infatti,
che i ministri ordinati - nel bene e, Dio non voglia, nel male - non passano
mai inosservati. Non
sono mai irrilevanti per la gente di cui sono servitori. Essi, dinanzi ai
singoli
membri e all’intera
comunità, sono - lo diciamo con un’immagine - posti sul candelabro, dove si dà
la luce che rischiara
e riscalda.
Le persone che
guardano a noi - perché siamo mandati a loro come vescovi, preti e diaconi -
spesso per timidezza,
ritrosia o complicatezza d’animo (bisogna, infatti, fare i conti anche con le
varie scansioni dell’animo
umano) attendono da noi anche ciò che espressamente non ci
domandano.
Dobbiamo avere grande
rispetto e stima del dono del sacerdozio e del diaconato che sono in
noi. Certo, l’apostolo
Paolo ci ricorda che siamo poveri e fragili vasi di creta: nessuno di noi
dubita
di questo ma il
contenuto di tali cocci di creta è preziosissimo e ci è stato donato
gratuitamente. A
noi, quindi, spetta
perpetuare con il dono di noi stessi - le promesse dell’ordinazione - un tale
dono
in spirito di vera
gratuità.
Richiamo qui il
relativo passo della seconda lettera ai Corinzi2 perché,
applicato al
sacerdozio (di primo
e secondo grado) e al diaconato, ci stimola ad andare incontro al Signore che,
soprattutto in questo
tempo d’Avvento, è Colui che incessantemente viene e al quale, come ministri
ordinati, dobbiamo
andar incontro non da soli, ma con le nostre comunità.
L’esempio è Maria che
visita la cugina Elisabetta, recandosi da lei con passo spedito. Come
ministri ordinati
dobbiamo domandarci con quali buone opere andiamo verso la capanna di
Betlemme. Un ministro
ordinato che non percepisca più la grandezza del dono che egli è con la sua
persona - proprio in
quanto vescovo, sacerdote o diacono - per la sua comunità finisce, ben presto,
per trovarsi allo “stretto”
nei panni del vescovo, del prete o del diacono, con tutto ciò che da questo
deriva.
Il Natale ci
interpella su questo punto: la risposta la dobbiamo dare di fronte al Signore e
alle
nostre comunità con
sincerità e verità.
Negli anni dell’infanzia
la solennità del santo Natale - con la novena così attesa, preceduta
dalla festa dell’Immacolata,
e con i piccoli ma così significativi fioretti - bussava alla porta del
nostro cuore di
bambini, capaci ancora di stupirsi, parlando col linguaggio eloquente della
semplicità, della
gioia e della bellezza.
Tutto questo ci
rinnovava a partire esattamente dalla realtà concreta di una fede vissuta, in
cui c’era vera
devozione e anche vero desiderio di conversione nella riscoperta del Dio
bambino.
Poi, con i suoi testi
e le sue musiche, la liturgia - che è il linguaggio più significativo che la
Chiesa possiede -
faceva il resto parlando al nostro cuore di bambini e, attraverso di noi, ai
nostri
genitori e viceversa.
Ecco la pastorale familiare in atto.
Così, di anno in
anno, attraverso una semplice ma reale esperienza di Chiesa - il metodo
“catecumenale” allora
non era teorizzato ma era prassi concreta - eravamo così condotti, al di là di
noi stessi, verso il
mistero del Signore Gesù attraverso una fede condivisa anche in famiglia. Oggi
è
questa la grande
sfida: la pastorale familiare deve diventare pastorale ordinaria.
L’incanto del
presepio era, poi, un richiamo potente al realismo dell’incarnazione e così -
in
modo semplice,
familiare e parrocchiale - tutti insieme si “imparava” Gesù Cristo.
Noi, oggi, sentiamo
il desiderio di offrire ai nostri bambini e, in modo differente, agli adulti
la realtà e la gioia
di una fede che torni a dare il sapore della bellezza di Dio e a ringiovanire
ogni
realtà, incominciando
dal cuore del pastore e dei fedeli, piccoli e grandi. Così siamo grati ai
bambini e alla loro
fede che la Chiesa - attraverso i parroci, le catechiste e, dove è possibile, i
genitori e i nonni -
ha la gioia di custodire e portare a maturazione.
Degli anni della
nostra fanciullezza, trascorsi in parrocchia e in patronato, quante cose sono
rimaste scritte, in
modo indelebile, nei nostri cuori! Nei nostri cuori, ma anche nei cuori di
tanti
nostri coetanei che,
poi, hanno intrapreso strade diverse dalle nostre. Per esempio, quanto
dobbiamo al nostro
antico parroco o cappellano, alle nostre catechiste e alla pastorale ordinaria
della nostra antica
parrocchia di provenienza: catechismo, prima confessione e prima comunione,
confermazione, gruppo
dei chierichetti, gruppo dei cantori, Grest, campi estivi ecc.
Di fronte al Signore
nulla della fatica di un prete e di un diacono - che si spendono
generosamente nel
loro ministero dove sono mandati dal vescovo - va perso. Sono certo che, in
Paradiso, molti
sacerdoti e diaconi avranno tante gradite sorprese e vedranno una fecondità
inaspettata del loro
ministero.
Sorprese che ne
sveleranno l’efficacia anche quando essi lo ritenevano ministero inutile,
privo di risultati e
quasi una perdita di tempo. San Paolo ci insegna che quando si avverte la
propria
impotenza, la fatica
del non riuscire, la pochezza delle nostre risorse, ebbene proprio allora la
grazia
del Signore lavora e
cambia il cuore delle persone, anche se ciò a noi rimane nascosto. “Quando
sono
debole - scrive l’Apostolo - è allora che sono forte” (cfr. 2 Cor
12,10).
Il teologo luterano
tedesco, Dietrich Bonhoeffer, all’interno della sua visione teologica, così
s’esprime: “Cristo
non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza,
della
sua
sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La
religiosità umana
rinvia
l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il Deus ex
machina. La
Bibbia
rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente
può aiutare”.
I vescovi, i
presbiteri e i diaconi, innanzitutto, sono chiamati a farsi carico - con cura -
della
fede dei semplici,
dei bambini, degli anziani e di chi, più degli altri, accusa i colpi della vita
o ha
perso il gusto del
vivere.
Chiediamoci, allora,
da dove prendere l’energia divina necessaria al nostro ministero per
non cedere allo
scoramento e venir meno. Noi ministri ordinati, infatti, siamo chiamati a
sorreggere
e a guidare i nostri
fratelli nelle cose che riguardano Dio.
Questa forza
soprannaturale, che proviene da Dio, è necessaria perché anche i vescovi, i
presbiteri e i
diaconi hanno le loro stanchezze, le loro fatiche apostoliche e non sempre i
loro sforzi
pastorali hanno esito
favorevole; non sempre il ministero sorride, non di rado emergono difficoltà e
disagi.
Come si fa, allora,
per non venir meno e per continuare a lavorare fedelmente, nonostante
tutto, in quella
parte della vigna del Signore che ci è stata affidata?
Ciò che dà forza al
ministro ordinato è il rapporto personale e diretto che ha col Signore
Gesù. Senza tale
legame con Lui, prima o poi, tutto è destinato a sfaldarsi. Riscoprire
quotidianamente il
rapporto col Signore è fondamentale per il nostro ministero. A tal proposito
san
Paolo scrive a
Timoteo di rivitalizzare il dono ricevuto per l’imposizione delle sue mani
(cfr. 1 Tim.
4, 14).
Nel libro dell’Esodo
Dio esige - nella raccolta della manna - di non prenderne più del
fabbisogno
giornaliero, ad eccezione del giorno di sabato, pena il marcire di quanto raccolto
in
eccedenza rispetto
alla razione quotidiana stabilita (cfr. Es 16, 13-31). Dio intendeva, in tal
modo,
educare il popolo
alla Sua presenza e fargli vivere la grazia del momento presente, così che il
Suo
popolo comprendesse
che era Dio a salvarlo, giorno dopo giorno.
Non dobbiamo, quindi,
cercare facili o false giustificazioni: quando manca il rapporto
personale col Signore
tutto s’appanna e diventano faticose e insormontabili anche le cose che non lo
sono. Il rapporto
personale d’amore reale col Signore, alla fine, s’esprime, giorno dopo giorno,
soprattutto nell’Eucaristia
quotidianamente celebrata e adorata, come pure nella preghiera personale
e nel ministero
fedele a servizio del proprio popolo, per amore al Signore Gesù.
E il monito ripetuto,
per ben tre volte, da Gesù riguarda proprio l’amore dell’apostolo Pietro
verso di Lui. E’
emblematico che solo dopo aver chiesto a Pietro, per tre volte, se lo amava gli
ingiunga di seguirlo
(cfr. Gv 21, 15-19). A tal proposito si può leggere il brano dai «Trattati su
Giovanni» di
sant'Agostino (cfr. Breviario, vol. I, Ufficio delle Letture, Seconda lettura
della
Memoria di san
Nicola).
Il vescovo, il
presbitero, il diacono devono essere umilmente consci della loro identità,
della
grandezza del loro
ministero e del loro amore per il Signore Gesù; tale consapevolezza, umile ma
ferma, deve
accompagnarli ovunque. Non c’è momento del giorno e della notte, nella salute o
nella
malattia, nella
giovinezza o nella vecchiaia, in cui la propria identità di ministri ordinati
possa
venire meno o
appannarsi.
Si è vescovi sempre,
si è presbiteri sempre, si è diaconi sempre, a prescindere dall’ufficio e
il compito concreto
che, in quel momento, ci è stato affidato dalla Chiesa. Non si fa il
vescovo, il
presbitero o il
diacono ma si è vescovi, si è presbiteri, si è diaconi a
tempo pieno e senza soluzione
di continuità.
Al di fuori di tale
logica, tutto nella struttura sacramentale dell’ordine - episcopato,
presbiterato,
diaconato - decade nel funzionalismo e, alla fine, nell’incomprensibile perché
la
logica intrinseca del
sacramento è il dono, così come risulta dalle promesse dell’ordinazione che
richiedono fedeltà.
Si è vescovi, si è
preti, si è diaconi quando la chiesa è affollata di persone e quando è
semivuota o anche
vuota, quando si è apprezzati o disprezzati, quando si è nel tempo della gioia
o
del dolore.
Il ministro ordinato
sa poi che quando non è possibile parlare alla gente di Dio, si può
sempre parlare a Dio
della gente, ossia pregare per quel popolo che ci è stato affidato. Sì, parlare
a
Dio di quel popolo
affidato alle nostre cure di ministri ordinati e che, oggi, fatica a percepire
la voce
del Padre comune che
sta nei cieli.
Il vescovo, il prete
e il diacono - in modi diversi, attraverso il loro ministero - sono a
servizio del popolo
loro affidato incoraggiandolo nella fede e dando a quel popolo l’unica certezza
che veramente può
garantirlo oltre la grande fragilità dell’uomo che è la morte. Il senso ultimo
del
ministero ordinato è
portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini, annunciando il Signore Gesù come
il Risorto e il
Vivente.
Ma se poi entriamo
nella logica di guardare la comunità e i membri che la compongono, a
partire da una
prospettiva solo umana, allora è facile veder tutto unicamente secondo tale
logica che
è vera ma ancora
parziale. E così si finisce - senza accorgersene - per porre se stessi come
“riferimenti” della
comunità, attendendo poi da essa - o da alcuni suoi membri - considerazioni,
attenzioni e
riconoscimenti particolari che poco o nulla hanno a che fare col ministero
sacerdotale o
diaconale.
Concludo, infine, con
un passo della prima lettera ai Corinzi3 (1
Cor 3, 1-23) che ci può
aiutare a capire, in
quanto ciò che Paolo scrive non è ipotesi astratta ma realtà. E i motivi dei
legami
inopportuni e malsani
possono essere anche molti altri, oltre a quelli qui descritti dall’apostolo
Paolo.