....Nel Cristo Dio fatto uomo , troviamo il sostegno per la nostra debolezza e le risorse per raggiungere la perfezione. L'umanità di Cristo ci rimette in piedi , la sua condiscendenza ci prende per mano , la sua divinità ci fa giungere alla méta....


S.Agostino

Cerca nel blog

sabato 22 dicembre 2012

L’altro 1968. La nascita del dissenso organizzato nella Chiesa Cattolica



1. La contestazione conto l’Humanae vitae
Il 31 luglio 1968 i lettori del New York Times trovano a pagina 16 del loro quotidiano preferito — ma con un richiamo a pagina 1 — qualche cosa che cambia per sempre la storia della Chiesa Cattolica. Non si tratta di una nuova dichiarazione antireligiosa dei protagonisti delle lotte studentesche del 1968 in Europa. Con il titolo «Contro l’enciclica di Papa Paolo» («Against Pope Paul’s Encyclical» 1968) il quotidiano statunitense pubblica un appello datato 30 luglio, e firmato da oltre duecento teologi, che invita i cattolici a disubbidire a un’enciclica pontificia. Si tratta di qualche cosa che non si è mai visto nella lunga — e pur tormentata — storia della Chiesa. Certamente ci sono sempre stati dissidenti che hanno lasciato la Chiesa di Roma. Ma mai teologi, quasi tutti con cattedre in università cattoliche — che non hanno nessuna intenzione di abbandonare — e in molti casi sacerdoti, hanno esortato pubblicamente i fedeli a seguire il loro insegnamento e a schierarsi «contro» quello del Sommo Pontefice. Se l’essenza della rivoluzione culturale emblematicamente rappresentata dalla data 1968 è la contestazione in ogni ambito del principio di autorità, questo episodio segna in modo clamoroso l’esplodere del Sessantotto della Chiesa.
Infatti, dalla contestazione per la prima volta organizzata, da parte di un numero non maggioritario ma non modesto di docenti e di sacerdoti, dell’enciclica Humanae vitae (datata 25 luglio 1968 e pubblicata il successivo 29 luglio) di Paolo VI (1897-1978), che ribadisce l’illiceità per i cattolici della contraccezione artificiale, nasce l’idea, diffusa non solo in ristrette cerchie di cultori di teologia ma sui media internazionali, che dopo il Vaticano II (che è finito tre anni prima) i cattolici — o almeno, per usare un’espressione non solo italiana, i «cattolici adulti» — possano scegliere fra il magistero del Papa e il «magistero parallelo» dei teologi, un’espressione che sarà ripresa nel 1990 dall’Istruzione Donum Veritatis della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla vocazione ecclesiale del teologo (Congregazione per la Dottrina della Fede 1990). I teologi, in quanto più «progressisti» e avanzati, anticiperebbero semplicemente oggi quanto il magistero finirà fatalmente per accettare domani, e quindi potrebbero e dovrebbero essere seguiti con fiducia dai fedeli più maturi.
Dal momento che — per dire il meno — il Papa e la gerarchia non condividono questo punto di vista, ecco che nella Chiesa Cattolica vi sono dal 1968 due fonti di autorità (da una parte il Papa, dall’altra i gruppi di teologi che riescono a farsi percepire come maggioritari, lo siano o no), le quali certamente non sono sullo stesso piano dal punto di vista della dottrina insegnata dalla Chiesa stessa (e dal Concilio Ecumenico Vaticano II) ma sono presentate come se lo fossero dai media. La sociologia c’insegna che un’organizzazione dove i membri sono, per così dire, tirati in direzioni diverse da fonti di autorità percepite come alternative è un’organizzazione che non può funzionare in modo ottimale: di qui la sua crisi, che nei decenni successivi diventa sempre più evidente.
Ralph McInerny, uno dei più autorevoli filosofi cattolici contemporanei, in un piccolo ma importante libro — dal significativo titolo Che cosa è andato storto con il Vaticano II? (McInerny 1998) — insiste sul fatto che la questione decisiva nel 1968 non riguarda solo gli anticoncezionali, ma chi esercita l’autorità nella Chiesa e quale autorità i fedeli devono seguire. La gravità del caso Humanae vitae è confermata da un dato che riguarda la persona stessa di Papa Paolo VI: dopo la reazione a quel documento, il Pontefice — che pure regna ancora fino al 1978 —, evidentemente amareggiato, non pubblica per tutta la sua vita, cioè nei successivi dieci anni, alcun’altra enciclica (un fatto del tutto inconsueto per un Papa moderno) dopo che ne aveva pubblicate sette fra il 1964 e il 1968.
Il teologo (poi cardinale) Leo Scheffczyk (1920-2005) — intervenendo nel 1988 a Roma a un congresso nel ventennale della Humanae vitae, ai cui partecipanti rivolge un importante discorso lo stesso Pontefice Giovanni Paolo II (1920-2005) — spiega, in un modo particolarmente chiaro, il meccanismo (illustrato in termini analoghi anche da altri autori) utilizzato dai teologi dissidenti per costituirsi come magistero parallelo. Si tratta di un lento e ultimamente devastante lavorio teologico intorno alla nozione d’infallibilità definita dal precedente Concilio Vaticano I. Si «mette accanto al magistero infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente» (Scheffczyk 1989, 283). Posto che il magistero invoca molto raramente la sua infallibilità, e normalmente richiede l’assenso dei fedeli nei confronti della sua espressione in forma «autentica», da parte dei dissidenti «si costruisce l’equazione: infallibilità è incapacità di errore, autenticità invece è capacità di errore, e perciò anche incertezza e di per sé più esposta al rifiuto» (ibidem). Mentre i teologi dissidenti dal Vaticano I se la prendevano con l’infallibilità, i dissidenti del dopo-Vaticano II se ne fanno scudo per dichiarare che nell’insegnamento della Chiesa, tranne il pochissimo che è infallibile, tutto il resto è «fallibile» e si ha quindi il diritto di rifiutarlo. Beninteso, «secondo le regole della conoscenza questa equazione non è ammissibile» e il magistero, così, «ha perduto il suo significato» (ibidem). Né insegna questo il Vaticano II, anzi insegna precisamente il contrario: anche il magistero «autentico» è «rivestito dell’autorità di Cristo» e pertanto l’assenso è obbligatorio (ibidem; cfr. Lumen Gentium, n. 25).
Dunque, la crisi che s’inaugura per così dire ufficialmente il 31 luglio 1968 riguarda anzitutto chi esercita l’autorità nella Chiesa. Ma riguarda anche la questione della sessualità umana. In un intervento del 3 ottobre 2008 al convegno Humanae vitae: attualità di un’enciclica, organizzato a Roma dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione dei quarant’anni del testo di Paolo VI, il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, mostra come — anche in tema di sessualità — non si tratti solo di prescrizioni morali specifiche, ma di tre grandi questioni su cui si gioca il futuro stesso della «proposta evangelica» (Caffarra 2008). La prima riguarda l’unità di materia e spirito che si esprime nella persona umana, contro tutti gli gnosticismi — per cui l’uomo è solo spirito — e tutti i materialismi, per cui l’uomo è solo materia o corpo e lo spirito non esiste. Si tratta qui di una battaglia che la Chiesa combatte fin dai primi secoli e che ha a che fare con l’equilibrio stesso fra ragione e fede.
Se l’uomo è solo spirito, la sessualità è qualche cosa di cattivo, al massimo un male necessario. Personalmente non so se siano mai state usate o se si tratti di una leggenda, ma ho sentito parlare anch’io delle camicie da notte di cui si afferma che facessero parte del corredo di nozze di qualche bisnonna con la frase ricamata «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio». Ora, la negazione del ruolo positivo del piacere e della sessualità in ultima analisi non è solo ottusa: per quanto le bisnonne potessero non rendersene conto è gnostica, in quanto nega che il Dio Creatore sia il creatore anche del corpo e abbia voluto il corpo come cosa intrinsecamente buona (ancorché — ma questo vale per ogni tipo di realtà — il suo uso disordinato possa essere cattivo).
Il contributo dell’allora cardinale Karol Wojtyla — il futuro Papa Giovanni Paolo II — ai lavori preparatori per l’enciclica Humanae vitae consiste in un testo inviato a Roma che sarà alla base di un libro, Amore e responsabilità (Wojtyla 1978), il quale purtroppo non diventerà generalmente noto nella Chiesa se non dopo l’elezione del suo autore a Pontefice (in italiano, per esempio, sarà tradotto solo dieci anni dopo, nel 1978). Sull’effettiva influenza del testo di Wojtyla sulla Humanae vitae è ancora in corso un dibattito fra gli storici. Tuttavia alcune idee forza di Amore e responsabilità si ritrovano nell’enciclica (che, sia detto per inciso, pochissimi hanno letto). Vi è una valutazione positiva della sessualità umana — contro ogni gnosticismo — ma insieme la ferma difesa della dottrina tradizionale della Chiesa secondo cui questo apprezzamento, per sfuggire all’attrazione dell’errore opposto, il materialismo, deve essere radicato in una continua illustrazione della necessaria compresenza di libertà e istituzione, significato unitivo e significato procreativo dell’atto sessuale, passione e ragione.
Seguendo sempre lo schema del cardinale Caffarra, la seconda grande questione posta dall’Humanae vitae — collegata alla prima — è che i gesti umani della «dimensione fisica […] veicolano un senso spirituale». Per esempio, «se il bacio di Giuda ci sconvolge tanto profondamente è perché il gesto del baciare ha un suo significato proprio: compierlo dandogli un altro senso è avvertito come immorale e riprovevole» (Caffarra 2008). Ultimamente, la domanda qui è se i gesti umani, compresi quelli della sessualità, siano parte di un linguaggio «dotato di un significato proprio, di una sua grammatica», abbiano cioè una funzione che corrisponde allo schema naturale delle cose — e quindi, per converso, possano anche averne una contraria alla legge naturale e immorale — ovvero se ogni gesto sia accettabile se lo percepisco come utile o semplicemente se mi va di farlo in quel momento. Il mondo moderno e postmoderno è passato dall’utilitarismo al semplice anarchismo morale: «tutto alla fine è dichiarato giustificabile, purché sia liberamente voluto» (ibidem).
La pillola contraccettiva sta precisamente al centro — non alla periferia — di questo problema perché negli anni intorno al, e dopo il, 1968 è stata il veicolo della rivoluzione sessuale e del «tutto è lecito purché lo voglia liberamente». Prendendo la pillola a colazione, qualunque studentessa post-sessantottina pensa di potere «fare quello che vuole» senza porsi neppure il problema della eventuale gravidanza, cioè della responsabilità. Peraltro sbagliando: i numeri sono impietosi e dimostrano che quando Marco Pannella nel decennio successivo al 1968 sfilava con i cartelli «Pillola subito per non abortire, aborto libero per non morire» aveva, come spesso gli capita, torto. Per non andare troppo lontano da noi, in Italia — uno dei Paesi con la maggiore diffusione pro capite di anticoncezionali — all’aumento del consumo della pillola ha corrisposto un tasso che è rimasto molto alto del numero degli aborti. Nel 2005 per esempio, secondo il Rapporto Annuale del Ministero della Salute, ci sono stati 132.790 aborti procurati (per intenderci, è come se in un anno fosse sparita una città come Bergamo, con tutti gli abitanti del comune e anche di un paio di comuni più piccoli vicini), e un po’ più di una gravidanza italiana ogni sei si è conclusa con un aborto. La diffusione di massa degli anticoncezionali, infatti, non previene l’aborto ma crea una mentalità ostile al concepimento e alla vita, per cui se me la cavo con la pillola bene, diversamente c’è sempre l’aborto.
La terza questione è se amore del corpo e amore dello spirito — eros e agape, un tema che Benedetto XVI riprenderà nella sua prima enciclica, Deus caritas est — siano necessariamente correlati ovvero possano e debbano essere separati. La Chiesa rifiuta l’amore coniugale senza sesso di certe eresie gnostiche, ma rifiuta anche il sesso senza amore così tipico del nostro tempo. Né si tratta qui di una concezione romantica: la posta in gioco è molto più profonda. Infatti, puntualmente, dopo il sesso senza procreazione è venuta — appena la tecnica lo ha consentito — la procreazione senza sesso dei bambini in provetta, e oggi la scienza apre scenari sempre più inquietanti. Paolo VI appare qui al cardinale Caffarra assai più profetico, nel senso non solo di parlar chiaro ma in questo caso anche proprio di prevedere il futuro, dei teologi dissidenti. Ma sembra che molti di questi dissidenti si fossero ormai schierati — non solo sulla questione della pillola contraccettiva ma sui temi di fondo della sessualità, dell’esistenza di una legge naturale e della stessa persona umana — con la modernità relativista e non con il diritto naturale e cristiano.
2. La controversia sul Nuovo catechismo olandese
La contestazione contro la Humanae vitae non è l’unica manifestazione del Sessantotto nella Chiesa. Se negli Stati Uniti indubbiamente l’attacco all’enciclica di Paolo VI è percepito come il momento chiave dello scardinamento del principio di autorità nella Chiesa, in Europa viene in primo piano la contestazione teologica, il cui simbolo è la controversia sul Nuovo catechismo olandese del 1966, cui sono rimproverate affermazioni ambigue sul peccato, la redenzione, l’eucarestia, la verginità della Madonna, il ruolo della Chiesa e del Papa: in altre parole, su quasi tutti i punti essenziali della fede cattolica.
Anche su questo tema, la data chiave è proprio il 1968, che è l’anno in cui una commissione ad hoc di cardinali voluta da Paolo VI, in dialogo con i cardinali e vescovi olandesi, propone una serie d’integrazioni e di modifiche al Nuovo catechismo olandese, peraltro in modo molto cortese, lodando lo stile leggibile e innovativo del testo e riconoscendo ai suoi autori buone intenzioni di cui oggi — con il senno di poi — possiamo dire senza eccessiva malizia che forse non c’erano. Queste critiche sono clamorosamente contestate da una parte maggioritaria dell’establishment cattolico olandese, con alla testa il cardinale arcivescovo di Utrecht, Bernard Jan Alfrink (1900-1987), esponente di punta del progressismo cattolico internazionale e principale difensore del controverso Nuovo catechismo. Si può dire che il rifiuto delle correzioni romane è tanto più virulento in quanto la questione s’intreccia precisamente con quella della Humanae vitae.
L’insuccesso del dialogo si rivelerà all’inizio di gennaio del 1969, con la cosiddetta «Dichiarazione d’indipendenza» di Noordwijkerhout, la città olandese sul Mare del Nord dove si riuniscono i 109 membri del Consiglio Pastorale Olandese, un organismo creato nel 1967 e che comprende rappresentanti dei vescovi, dei sacerdoti e dei fedeli. Con il voto favorevole dei nove vescovi che ne fanno parte — compreso il cardinale Alfrink — il Consiglio invita i fedeli olandesi a rifiutare l’insegnamento della Humanae vitae. Nella stessa occasione — con l’astensione dei vescovi — il Consiglio Pastorale Olandese si schiera a favore del Nuovo catechismo olandese senza le correzioni suggerite da Roma, e chiede pure che la Chiesa rimanga aperta a «nuovi approcci radicali» sui temi morali, non citati nella mozione finale ma che emergono dai lavori del Consiglio come rapporti prematrimoniali, unioni omosessuali, aborto ed eutanasia. Tutto questo già all’inizio del 1969, non nel 1999 o nel 2009.
Nel giro di pochi mesi, si vede come il principio secondo cui singoli sacerdoti, teologi e anche vescovi possono erigersi in «magistero parallelo» ignorando completamente la dottrina della Chiesa si è esteso dagli anticoncezionali a tutti i temi morali che segneranno i successivi quarant’anni — nella «Dichiarazione d’indipendenza» dei teologi olandesi dal magistero romano c’è già tutto — e, attraverso il Nuovo catechismo, a temi dottrinali che riguardano l’essenziale della fede. Si tratta proprio del Sessantotto: una volta proclamato che ciascuno fa e dice quello che vuole, l’immaginazione va al potere — anche nella Chiesa.
I risultati della «Dichiarazione d’indipendenza» dell’Olanda da Roma sono stati disastrosi. Gli olandesi che dichiarano un’affiliazione alla Chiesa cattolica nel 1966, l’anno della pubblicazione del Nuovo catechismo, sono il 35%. Nel 2006 si sono più che dimezzati, e ridotti al 16%. Nel 2007, grazie all’immigrazione, i musulmani completano in Olanda il sorpasso sui cattolici. Nel frattempo, pur rimanendo meno dei cattolici, crescono i gruppi protestanti di tendenza evangelical, che su tutti i temi morali hanno opinioni opposte a quelle della «Dichiarazione d’indipendenza» (Vellenga 2008). Per la verità negli ultimi anni anche nella Chiesa cattolica olandese si stanno affermando tendenze piuttosto diverse da quelle del 1968. Ma ormai potrebbe essere troppo tardi: nel Paese dell’eutanasia libera è andata in scena dal 1968 in poi l’eutanasia di una Chiesa. 
3. La teologia della liberazione
Coincidenza o no, il 1968 segna anche il vero e proprio «lancio» internazionale dell’espressione «teologia della liberazione» da parte del teologo peruviano Gustavo Gutiérrez Merino O.P. Insieme con la contestazione contro la Humanae vitae e la controversia sul Nuovo catechismo olandese, si tratta del terzo momento cruciale del Sessantotto nella Chiesa. Certo, l’espressione «teologia della liberazione» non corrisponde a una corrente unitaria ma a un insieme di sotto-correnti diverse. Non ci si può però nascondere che la corrente più influente sulla vita sociale e politica dell’Iberoamerica (e non solo) è quella che ha adottato come strumento di analisi privilegiato il marxismo.
In un articolo molto importante, apparso nel 2007 sulla Revista Eclesiástica Brasileira dopo la visita di Benedetto XVI in Brasile, padre Clodovis Boff O.S.M. — un tempo uno dei maggiori propagandisti, se non la maggiore «testa pensante» della corrente — non ha timore di denunciare nella «teologia della liberazione» «una funesta ambiguità» (Boff C. 2007, 1002) e una «trasformazione della fede in ideologia» (ibid., 1005), dove «il povero e la sua liberazione prendono il posto pre-eminente di Dio e della sua salvezza» (ibid., 1007-1008). Ora, mentre «da Cristo si va necessariamente al povero, dal povero non si va necessariamente a Cristo» (ibid., 1012). La «teologia della liberazione» è così scaduta in un «qualunquismo epistemologico» (ibid., 1008) che la ha svuotata di ogni contenuto specificamente religioso, e ha assunto secondo Clodovis Boff un «sapore maurrassiano» (che, osservo, per un teologo della liberazione dev’essere un insulto particolarmente bruciante: ibid., 1010). Se il pensatore e uomo politico francese Charles Maurras (1868-1952) apprezzava la religione — o così pensa Clodovis Boff — come instrumentum regni al servizio di una certa politica, i teologi della liberazione hanno cambiato politica ma rivolgono lo stesso sguardo strumentale alla religione. Dove Maurras proclama politique d’abord, questa teologia ha adottato «come insegna libération d’abord» (ibidem). I risultati sono stati da una parte il sostegno ai regimi marxisti e ad «altre forme di povertà e di oppressione» (ibid., 1008) non migliori di quelle che si era partiti con il denunciare, dall’altra la «scarsa attrazione» che la «teologia della liberazione» ha finito per esercitare sui poveri in carne e ossa, così che ha perso «agenti, militanti e fedeli» fino a ritrovarsi oggi «storicamente anacronistica, cioè alienata dalla sua epoca» (ibid., 1007).
Con una svolta sorprendente rispetto alle sue posizioni solo di pochi anni prima, Clodovis Boff esprime apprezzamento per le posizioni di Benedetto XVI. Rintraccia le radici dell’«antropologismo modernizzante» (ibid., 1009), che arriva con la «teologia della liberazione» alle estreme conseguenze, nel soggettivismo di Martin Lutero (1483-1546), nel moralismo illuminista di Immanuel Kant (1724-1804), nel modernismo condannato da san Pio X (1835-1914) nell’enciclica Pascendi del 1907 e infine — ma ogni passaggio prepara quello successivo — nella cosiddetta svolta antropologica nella teologia di Karl Rahner S.J. (1904-1984). Senza dubbio Clodovis Boff non è passato — come invece, in una dura replica all’articolo, pensa, suo fratello, l’ex-francescano Leonardo Boff (Boff L. 2008) — «dall’altra parte» rispetto a una certa corrente culturale. Infatti, continua a considerare quelli che chiama il «divinismo» e il «totalitarismo teologico» (Boff C. 2007, 1010) della Chiesa pre-moderna — la «Chiesa della cristianità» (ibidem) — come elementi almeno parzialmente responsabili, in quanto avrebbero generato una reazione per molti versi comprensibile, del «mondanismo» (ibidem) e del totalitarismo politico che la modernità ha opposto alla Chiesa. Tuttavia, riconosce pure con Benedetto XVI che «grazie all’apertura conciliare l’estremismo della modernità è riuscito a entrare in modo virulento nel seno stesso della Chiesa, generando anche rotture» (ibid., 1010-1011).
Il testo di Clodovis Boff è così importante perché mostra che la «teologia della liberazione» — se si vuole, la sua corrente d’ispirazione marxista — si situa alla fine di un processo, il progressismo, che ha accompagnato tutta la storia della Chiesa nell’era moderna e contemporanea. Come il Sessantotto non si comprende se non come esito di un processo rivoluzionario plurisecolare, così anche il Sessantotto nella Chiesa non può essere capito a fondo se non lo s’inquadra in una lunga storia che da Lutero e dai cedimenti cattolici all’Illuminismo passa per il modernismo e per Karl Rahner prima di arrivare all’incontro con il marxismo. Gioca qui un ruolo cruciale, certo, un’interpretazione errata del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo quella «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto alla tradizione precedente denunciata da Benedetto XVI (Benedetto XVI 2005). E tuttavia il Sessantotto della Chiesa non è solo questione d’interpretazione del Concilio. Il dissenso sulla Humanae vitae, la controversia sul Nuovo catechismo olandese e la nascita della «teologia della liberazione» d’impronta marxista sono l’esito — che non casualmente si manifesta proprio nel 1968 — di processi più che secolari, di dinamiche che già esistevano prima del Concilio cui la stessa teologia preconciliare non aveva posto una argine sufficiente, così che la stessa reazione ai dissidenti da parte di un pensiero etico e teologico conservatore all’immediato indomani del 1968 manifesta una grave «inadeguatezza» (Caffarra 2008).
Infine, il Sessantotto nella Chiesa non è, e qualche volta le manifestazioni più deteriori del Sessantotto, che evidentemente si estendono agli anni successivi, non vanno dal mondo alla Chiesa ma nascono nella Chiesa per poi penetrare nel mondo. All’inizio degli anni 1990 un teologo cattolico potrà per esempio scrivere che la «rivoluzione culturale» del 1968 «non fu un fenomeno d’urto abbattutosi dall’esterno contro la Chiesa bensì è stata preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo»; lo stesso «processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70», il cui legame con il 1968 è a sua volta decisivo, «rimane incomprensibile se si prescinde dalla crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare». Il teologo in questione è il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger 1992, 125-126).