1. Il XVII centenario dell’Editto di Milano
«L’Editto di Milano del 313 ha un significato epocale perché segna l’initium libertatis dell’uomo moderno». Quest’affermazione di un illustre cultore del diritto romano, il compianto Gabrio Lombardi, permette di evidenziare come i provvedimenti, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro i cristiani ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa. In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e “laicità dello Stato”. Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della società politica.
Un’interessante conferma di questo dato si può trovare in due significativi insegnamenti di sant’Ambrogio. Da una parte l’arcivescovo non esitò mai a richiamare i cristiani ad essere leali nei confronti dell’autorità civile, la quale, a sua volta – ecco il secondo insegnamento – doveva garantire ai cittadini libertà sul piano personale e sociale. Veniva così riconosciuto l’orizzonte del bene pubblico a cui sono chiamati a concorrere cittadini e autorità.
Non si può tuttavia negare che l’Editto di Milano sia stato una sorta di “inizio mancato”. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia lunga e travagliata.
La storica, indebita commistione tra il potere politico e la religione può rappresentare un’utile chiave di lettura delle diverse fasi attraversate dalla storia della pratica della libertà religiosa.
La situazione cambiò profondamente con la promulgazione della dichiarazione Dignitatis humanae. Quali sono le novità fondamentali dell’insegnamento conciliare? Il Concilio, alla luce della retta ragione confermata e illuminata dalla divina rivelazione, ha affermato che l’uomo ha diritto a non essere costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito ad agire in conformità con essa.
In questo modo, con la dichiarazione conciliare venne superata la dottrina classica della tolleranza per riconoscere che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», e che tale diritto «perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa» (DH 2). A dire di Nikolaus Lobkowicz, già rettore della Università di Monaco di Baviera e presidente dell’Università cattolica di Eichstätt, «la straordinaria qualità della dichiarazione Dignitatis humanae consiste nell’aver trasferito il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato».
2. Praticare e pensare oggi la libertà religiosa
Tuttavia parlare oggi di libertà religiosa significa affrontare un’emergenza che va sempre più assumendo un carattere globale. Secondo l’accurato studio di Brian J. Grim e Roger Finke, nel periodo compreso tra il 2000 e il 2007 sono stati ben 123 i Paesi in cui si è verificata una qualche forma di persecuzione religiosa, e purtroppo il numero è in continuo aumento.
Questi dati, espressione preoccupante di un grave malessere di civiltà, spingono ad intensificare l’approfondimento del tema senza trascurare i dibattiti, talora accesi e mai sopiti, sulla natura, sulla corretta interpretazione e sulla necessaria assunzione della dichiarazione Dignitatis humanae.
Anzitutto il tema della “libertà religiosa”, che a prima vista suscita un consenso molto ampio, possiede da sempre un contenuto tutt’altro che ovvio. Si impiglia, infatti, in un nodo alquanto complesso, in cui s’intrecciano almeno tre gravi problemi: a) il rapporto tra verità oggettiva e coscienza individuale, b) la coordinazione tra comunità religiose e potere statale e c), dal punto di vista teologico cristiano, la questione dell’interpretazione dell’universalità della salvezza in Cristo di fronte alla pluralità delle religioni e di mondovisioni (visioni etiche “sostantive”).
In secondo luogo bisogna aggiungere che a questi problemi, per così dire classici, dell’interpretazione della libertà religiosa se ne sommano oggi di nuovi, non meno decisivi.
Ne indico tre. Il primo è quello del rapporto tra la ricerca religiosa personale e la sua espressione comunitaria. Spesso viene sollevata la domanda: fino a che punto la libertà religiosa può limitarsi ad una espressione soltanto individuale? D’altra parte, ci si deve chiedere a quali condizioni un “gruppo religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è. I fatti confermano in tal modo che la distinzione tra potere politico e religioni non è così ovvia come può apparire a prima vista.
Con caratteristiche analoghe si presenta il problema della distinzione tra religioni e “sette”: si tratta di un tema antico quanto la nozione romana di religio licita, ma che recentemente ha assunto caratteri molto più acuti per una serie di motivi: la frammentazione e la proliferazione di “comunità” all’interno del mondo cristiano; la posizione agnostica della maggior parte delle legislazioni di fronte ai fenomeni religiosi.
È infine importante notare che oggi uno dei temi più scottanti nell’ambito della discussione sulla libertà religiosa è quello del suo legame con la libertà di conversione.
Per tutti questi motivi, pensare e praticare la libertà religiosa appare oggi molto più difficile di quanto ci si aspetterebbe soprattutto dopo la dichiarazione conciliare.
3. Nodi da sciogliere
In questo quadro, per sciogliere taluni nodi problematici, sono utili ed appropriati almeno due ordini di considerazioni.
Il primo riguarda il nesso tra libertà religiosa e pace sociale. Non solo la prassi, ma anche diversi studi recenti hanno evidenziato come tra le due realtà esista una correlazione molto stretta. Se astrattamente parlando si potrebbe immaginare che una legislazione in grado di ridurre i margini della diversità religiosa riesca anche a ridurre fino ad eliminare la conflittualità che ne può derivare, di fatto si verifica la situazione esattamente opposta: più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa. Questo risultato è in realtà comprensibile: imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere quei risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi, sulla scena pubblica, come conflitti.
Il secondo problema è ancor più complesso e richiede una riflessione un po’ più articolata. Riguarda la connessione tra libertà religiosa e orientamento dello Stato e, a diversi livelli, di tutte le istituzioni statuali, nei confronti delle comunità religiose presenti nella società civile.
L’evoluzione degli Stati democratico-liberali è andata sempre più mutando l’equilibrio su cui tradizionalmente si reggeva il potere politico. Ancora fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte.
Che cosa è accaduto quando questo riferimento, identificato nella sua origine religiosa, è stato messo in questione e ritenuto inutilizzabile? Si sono andate assolutizzando in politica delle procedure decisionali che tendono ad autogiustificarsi in maniera incondizionata. Ne è conferma il fatto che il classico problema del giudizio morale sulle leggi si è andato sempre più trasformando in un problema di libertà religiosa. Di ferita alla libertà religiosa parla in modo esplicito la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito dell’HHS Mandate, cioè alla riforma sanitaria di Obama che impone a vari tipi di istituzioni religiose (specialmente ospedali e scuole) di offrire ai propri impiegati polizze di assicurazione sanitaria che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione.
Il presupposto teorico dell’evoluzione sopra richiamata si rifà, nei fatti, al modello francese di laicité che è parso ai più una risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie per i gruppi minoritari. Esso si basa sull’idea dell’in-differenza, definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso e per questo si presenta a prima vista come idoneo a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Si tratta di una concezione ormai assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea, in cui però, a ben vedere, le categorie di libertà religiosa e della cosiddetta “neutralità” dello Stato sono andate sempre più sovrapponendosi, finendo così per confondersi. Nei fatti, per vari motivi ad un tempo di carattere teorico e storico, la laicité alla francese ha finito per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso. Perché? Anzitutto, l’idea stessa di “neutralità” si è rivelata assai problematica, soprattutto perché essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla.
Ora, rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité intendeva rispettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa.
Come ovviare a questo grave stato di cose? Ripensando il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune.
Conviene tuttavia chiedersi: il modo migliore di affrontare questa delicata situazione è rivendicare una liberty of religion delle diverse comunità, chiedendo il rispetto delle “peculiarità” delle loro sensibilità morali minoritarie? Questa sola richiesta, anche se doverosa, rischia di rafforzare sulla scena pubblica l’idea secondo cui l’identità religiosa è fatta di nient’altro che di contenuti ormai desueti, mitologici e folcloristici. È assolutamente necessario che questa giusta rivendicazione si iscriva in un orizzonte propositivo più largo, dotato di una ben articolata gerarchia di elementi.
Questi troppo rapidi accenni mostrano non solo quanto il tema della libertà religiosa resti complesso, ma soprattutto ci spingono a riconoscere come, oggi più che mai, questo tema rappresenti la più sensibile cartina di tornasole del grado di civiltà delle nostre società plurali.
Infatti se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla. La libertà religiosa appare oggi come l’indice di una sfida molto più vasta: quella della elaborazione e della pratica, a livello locale ed universale, di nuovi basi antropologiche, sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo terzo millennio. Ovviamente questo processo non può significare un ritorno al passato, ma deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società. Pertanto, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, deve prendere l’avvio dal bene pratico comune dell’essere insieme. Facendo poi leva sul principio di comunicazione rettamente inteso, i soggetti personali e sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti.
4. Per un cammino comune
In proposito vorrei solo accennare a una condizione secondo me imprescindibile di questo cammino arduo, ma improcrastinabile.
Acquisito l’insegnamento di Dignitatis humanae connesso a quell’initium libertatis inaugurato positivamente nell’Editto del 313, che l’adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura, bisogna riconoscere che questa doppia condizione resta nei fatti spesso irrealizzabile. Perché? Perché contemporaneamente non si persegue «quel dovere e quindi il diritto di cercare la verità» (DH 3) che toglie ad ogni retta affermazione della libertà religiosa il sospetto di essere un altro nome dell’indifferentismo religioso che non può non porsi, almeno nei fatti, come una specifica mondovisione la quale, nell’attuale frangente storico, tende sempre più a far valere l’egemonia di una particolare visione del mondo sulle altre.
Che dire in proposito di fronte all’obiezione di quanti non soddisfano l’obbligo di cercare la verità per aderirvi? Anzitutto si deve ribadire che questa è sempre comunque la scelta di una mondovisione che ha cittadinanza in una società plurale, ma che non può essere surrettiziamente assunta come fondamento della aconfessionalità dello Stato.
Tuttavia ancor più decisivo è il libero invito loro rivolto a riflettere in che cosa consista tale obbligo.
Agostino, genio espressivo dell’umana inquietudine, ne aveva carpito il segreto, come ci ricorda Benedetto XVI: «Non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede». In questo senso, è la stessa verità, attraverso la pregnanza delle relazioni e delle circostanze della vita di cui ogni uomo è protagonista, a proporsi come “il caso serio” dell’umana esistenza e dell’umana convivenza. La verità che ci cerca si documenta nell’insopprimibile anelito con cui l’uomo ad essa aspira: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?». E questo anelito rispetta la libertà di tutti, anche di chi si dice agnostico, indifferente o ateo. La libertà religiosa sarebbe altrimenti una parola vuota.
5. L’anniversario dell’Editto, opportunità per Milano
La città di Milano e le terre lombarde sono e saranno sempre più abitate da tanti nuovi italiani (immigrati di prima, seconda e terza generazione). Saranno chiamate a fare i conti con il processo storico (sottolineo processo storico e non progetto sincretistico) di meticciato di civiltà e di culture, a mostrare la capacità di rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo ecclesiale e un buon tessuto sociale trasmettendo fede e memoria.
Le nostre terre sono e saranno obbligate a confrontarsi con lo sviluppo di una società civile dai contorni molto più variegati e a rischio di sempre maggior frammentazione per la presenza di interessi corporativi, i cui centri effettivi di potere sono e saranno sempre più dis-locati “altrove”, in Europa e nel mondo; poteri, mai neutri, che vedranno sempre più accresciuta la loro capacità di presentarsi come attori sociali e gruppi di pressione.
La celebrazione dell’anniversario dell’Editto di Milano cade in un momento storico in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le Chiese del nostro paese, è chiamata ad un’opera di trasformazione della propria presenza nella società plurale. Superati i decenni della contestazione che annunciavano la fine di ogni forma pubblica del cattolicesimo (negli anni ’70 anche a Milano molti pensavano così), i cristiani possono testimoniare l’importanza e l’utilità della dimensione pubblica della fede. Il cattolicesimo popolare ambrosiano – che non è privo di profonde fragilità sia nell’assunzione del pensiero di Cristo che nella pratica sacramentale e del senso cristiano della vita – si mostra tuttavia capace di risorse innovative per il vivere sociale, inimmaginabili nelle previsioni di qualche decennio fa. Il concreto tessuto ambrosiano di vita cristiana, forse in modo culturalmente minoritario, sta infatti cercando nuove forme per mantenersi capillarmente radicato nell’esteso territorio della diocesi. Lo fa attraverso reti di solidarietà, di accoglienza, di costruzione di risposte ai bisogni fondamentali, di gestione del legame sociale, di educazione alla fede e alla cultura, che va dall’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della verità dell’evento di Gesù Cristo presente nella comunità, fino alla proposta di tutte le sue umanissime implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato.
6. Un lavoro comune
Il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono chiamati a lasciar trasparire il tutto. L’insieme deve brillare in ogni frammento a beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile. Vita buona e buon governo vanno infatti di pari passo.
«L’Editto di Milano del 313 ha un significato epocale perché segna l’initium libertatis dell’uomo moderno». Quest’affermazione di un illustre cultore del diritto romano, il compianto Gabrio Lombardi, permette di evidenziare come i provvedimenti, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro i cristiani ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa. In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e “laicità dello Stato”. Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della società politica.
Un’interessante conferma di questo dato si può trovare in due significativi insegnamenti di sant’Ambrogio. Da una parte l’arcivescovo non esitò mai a richiamare i cristiani ad essere leali nei confronti dell’autorità civile, la quale, a sua volta – ecco il secondo insegnamento – doveva garantire ai cittadini libertà sul piano personale e sociale. Veniva così riconosciuto l’orizzonte del bene pubblico a cui sono chiamati a concorrere cittadini e autorità.
Non si può tuttavia negare che l’Editto di Milano sia stato una sorta di “inizio mancato”. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia lunga e travagliata.
La storica, indebita commistione tra il potere politico e la religione può rappresentare un’utile chiave di lettura delle diverse fasi attraversate dalla storia della pratica della libertà religiosa.
La situazione cambiò profondamente con la promulgazione della dichiarazione Dignitatis humanae. Quali sono le novità fondamentali dell’insegnamento conciliare? Il Concilio, alla luce della retta ragione confermata e illuminata dalla divina rivelazione, ha affermato che l’uomo ha diritto a non essere costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito ad agire in conformità con essa.
In questo modo, con la dichiarazione conciliare venne superata la dottrina classica della tolleranza per riconoscere che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», e che tale diritto «perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa» (DH 2). A dire di Nikolaus Lobkowicz, già rettore della Università di Monaco di Baviera e presidente dell’Università cattolica di Eichstätt, «la straordinaria qualità della dichiarazione Dignitatis humanae consiste nell’aver trasferito il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato».
2. Praticare e pensare oggi la libertà religiosa
Tuttavia parlare oggi di libertà religiosa significa affrontare un’emergenza che va sempre più assumendo un carattere globale. Secondo l’accurato studio di Brian J. Grim e Roger Finke, nel periodo compreso tra il 2000 e il 2007 sono stati ben 123 i Paesi in cui si è verificata una qualche forma di persecuzione religiosa, e purtroppo il numero è in continuo aumento.
Questi dati, espressione preoccupante di un grave malessere di civiltà, spingono ad intensificare l’approfondimento del tema senza trascurare i dibattiti, talora accesi e mai sopiti, sulla natura, sulla corretta interpretazione e sulla necessaria assunzione della dichiarazione Dignitatis humanae.
Anzitutto il tema della “libertà religiosa”, che a prima vista suscita un consenso molto ampio, possiede da sempre un contenuto tutt’altro che ovvio. Si impiglia, infatti, in un nodo alquanto complesso, in cui s’intrecciano almeno tre gravi problemi: a) il rapporto tra verità oggettiva e coscienza individuale, b) la coordinazione tra comunità religiose e potere statale e c), dal punto di vista teologico cristiano, la questione dell’interpretazione dell’universalità della salvezza in Cristo di fronte alla pluralità delle religioni e di mondovisioni (visioni etiche “sostantive”).
In secondo luogo bisogna aggiungere che a questi problemi, per così dire classici, dell’interpretazione della libertà religiosa se ne sommano oggi di nuovi, non meno decisivi.
Ne indico tre. Il primo è quello del rapporto tra la ricerca religiosa personale e la sua espressione comunitaria. Spesso viene sollevata la domanda: fino a che punto la libertà religiosa può limitarsi ad una espressione soltanto individuale? D’altra parte, ci si deve chiedere a quali condizioni un “gruppo religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è. I fatti confermano in tal modo che la distinzione tra potere politico e religioni non è così ovvia come può apparire a prima vista.
Con caratteristiche analoghe si presenta il problema della distinzione tra religioni e “sette”: si tratta di un tema antico quanto la nozione romana di religio licita, ma che recentemente ha assunto caratteri molto più acuti per una serie di motivi: la frammentazione e la proliferazione di “comunità” all’interno del mondo cristiano; la posizione agnostica della maggior parte delle legislazioni di fronte ai fenomeni religiosi.
È infine importante notare che oggi uno dei temi più scottanti nell’ambito della discussione sulla libertà religiosa è quello del suo legame con la libertà di conversione.
Per tutti questi motivi, pensare e praticare la libertà religiosa appare oggi molto più difficile di quanto ci si aspetterebbe soprattutto dopo la dichiarazione conciliare.
3. Nodi da sciogliere
In questo quadro, per sciogliere taluni nodi problematici, sono utili ed appropriati almeno due ordini di considerazioni.
Il primo riguarda il nesso tra libertà religiosa e pace sociale. Non solo la prassi, ma anche diversi studi recenti hanno evidenziato come tra le due realtà esista una correlazione molto stretta. Se astrattamente parlando si potrebbe immaginare che una legislazione in grado di ridurre i margini della diversità religiosa riesca anche a ridurre fino ad eliminare la conflittualità che ne può derivare, di fatto si verifica la situazione esattamente opposta: più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa. Questo risultato è in realtà comprensibile: imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere quei risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi, sulla scena pubblica, come conflitti.
Il secondo problema è ancor più complesso e richiede una riflessione un po’ più articolata. Riguarda la connessione tra libertà religiosa e orientamento dello Stato e, a diversi livelli, di tutte le istituzioni statuali, nei confronti delle comunità religiose presenti nella società civile.
L’evoluzione degli Stati democratico-liberali è andata sempre più mutando l’equilibrio su cui tradizionalmente si reggeva il potere politico. Ancora fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte.
Che cosa è accaduto quando questo riferimento, identificato nella sua origine religiosa, è stato messo in questione e ritenuto inutilizzabile? Si sono andate assolutizzando in politica delle procedure decisionali che tendono ad autogiustificarsi in maniera incondizionata. Ne è conferma il fatto che il classico problema del giudizio morale sulle leggi si è andato sempre più trasformando in un problema di libertà religiosa. Di ferita alla libertà religiosa parla in modo esplicito la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito dell’HHS Mandate, cioè alla riforma sanitaria di Obama che impone a vari tipi di istituzioni religiose (specialmente ospedali e scuole) di offrire ai propri impiegati polizze di assicurazione sanitaria che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione.
Il presupposto teorico dell’evoluzione sopra richiamata si rifà, nei fatti, al modello francese di laicité che è parso ai più una risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie per i gruppi minoritari. Esso si basa sull’idea dell’in-differenza, definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso e per questo si presenta a prima vista come idoneo a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Si tratta di una concezione ormai assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea, in cui però, a ben vedere, le categorie di libertà religiosa e della cosiddetta “neutralità” dello Stato sono andate sempre più sovrapponendosi, finendo così per confondersi. Nei fatti, per vari motivi ad un tempo di carattere teorico e storico, la laicité alla francese ha finito per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso. Perché? Anzitutto, l’idea stessa di “neutralità” si è rivelata assai problematica, soprattutto perché essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla.
Ora, rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité intendeva rispettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa.
Come ovviare a questo grave stato di cose? Ripensando il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune.
Conviene tuttavia chiedersi: il modo migliore di affrontare questa delicata situazione è rivendicare una liberty of religion delle diverse comunità, chiedendo il rispetto delle “peculiarità” delle loro sensibilità morali minoritarie? Questa sola richiesta, anche se doverosa, rischia di rafforzare sulla scena pubblica l’idea secondo cui l’identità religiosa è fatta di nient’altro che di contenuti ormai desueti, mitologici e folcloristici. È assolutamente necessario che questa giusta rivendicazione si iscriva in un orizzonte propositivo più largo, dotato di una ben articolata gerarchia di elementi.
Questi troppo rapidi accenni mostrano non solo quanto il tema della libertà religiosa resti complesso, ma soprattutto ci spingono a riconoscere come, oggi più che mai, questo tema rappresenti la più sensibile cartina di tornasole del grado di civiltà delle nostre società plurali.
Infatti se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla. La libertà religiosa appare oggi come l’indice di una sfida molto più vasta: quella della elaborazione e della pratica, a livello locale ed universale, di nuovi basi antropologiche, sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo terzo millennio. Ovviamente questo processo non può significare un ritorno al passato, ma deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società. Pertanto, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, deve prendere l’avvio dal bene pratico comune dell’essere insieme. Facendo poi leva sul principio di comunicazione rettamente inteso, i soggetti personali e sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti.
4. Per un cammino comune
In proposito vorrei solo accennare a una condizione secondo me imprescindibile di questo cammino arduo, ma improcrastinabile.
Acquisito l’insegnamento di Dignitatis humanae connesso a quell’initium libertatis inaugurato positivamente nell’Editto del 313, che l’adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura, bisogna riconoscere che questa doppia condizione resta nei fatti spesso irrealizzabile. Perché? Perché contemporaneamente non si persegue «quel dovere e quindi il diritto di cercare la verità» (DH 3) che toglie ad ogni retta affermazione della libertà religiosa il sospetto di essere un altro nome dell’indifferentismo religioso che non può non porsi, almeno nei fatti, come una specifica mondovisione la quale, nell’attuale frangente storico, tende sempre più a far valere l’egemonia di una particolare visione del mondo sulle altre.
Che dire in proposito di fronte all’obiezione di quanti non soddisfano l’obbligo di cercare la verità per aderirvi? Anzitutto si deve ribadire che questa è sempre comunque la scelta di una mondovisione che ha cittadinanza in una società plurale, ma che non può essere surrettiziamente assunta come fondamento della aconfessionalità dello Stato.
Tuttavia ancor più decisivo è il libero invito loro rivolto a riflettere in che cosa consista tale obbligo.
Agostino, genio espressivo dell’umana inquietudine, ne aveva carpito il segreto, come ci ricorda Benedetto XVI: «Non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede». In questo senso, è la stessa verità, attraverso la pregnanza delle relazioni e delle circostanze della vita di cui ogni uomo è protagonista, a proporsi come “il caso serio” dell’umana esistenza e dell’umana convivenza. La verità che ci cerca si documenta nell’insopprimibile anelito con cui l’uomo ad essa aspira: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?». E questo anelito rispetta la libertà di tutti, anche di chi si dice agnostico, indifferente o ateo. La libertà religiosa sarebbe altrimenti una parola vuota.
5. L’anniversario dell’Editto, opportunità per Milano
La città di Milano e le terre lombarde sono e saranno sempre più abitate da tanti nuovi italiani (immigrati di prima, seconda e terza generazione). Saranno chiamate a fare i conti con il processo storico (sottolineo processo storico e non progetto sincretistico) di meticciato di civiltà e di culture, a mostrare la capacità di rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo ecclesiale e un buon tessuto sociale trasmettendo fede e memoria.
Le nostre terre sono e saranno obbligate a confrontarsi con lo sviluppo di una società civile dai contorni molto più variegati e a rischio di sempre maggior frammentazione per la presenza di interessi corporativi, i cui centri effettivi di potere sono e saranno sempre più dis-locati “altrove”, in Europa e nel mondo; poteri, mai neutri, che vedranno sempre più accresciuta la loro capacità di presentarsi come attori sociali e gruppi di pressione.
La celebrazione dell’anniversario dell’Editto di Milano cade in un momento storico in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le Chiese del nostro paese, è chiamata ad un’opera di trasformazione della propria presenza nella società plurale. Superati i decenni della contestazione che annunciavano la fine di ogni forma pubblica del cattolicesimo (negli anni ’70 anche a Milano molti pensavano così), i cristiani possono testimoniare l’importanza e l’utilità della dimensione pubblica della fede. Il cattolicesimo popolare ambrosiano – che non è privo di profonde fragilità sia nell’assunzione del pensiero di Cristo che nella pratica sacramentale e del senso cristiano della vita – si mostra tuttavia capace di risorse innovative per il vivere sociale, inimmaginabili nelle previsioni di qualche decennio fa. Il concreto tessuto ambrosiano di vita cristiana, forse in modo culturalmente minoritario, sta infatti cercando nuove forme per mantenersi capillarmente radicato nell’esteso territorio della diocesi. Lo fa attraverso reti di solidarietà, di accoglienza, di costruzione di risposte ai bisogni fondamentali, di gestione del legame sociale, di educazione alla fede e alla cultura, che va dall’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della verità dell’evento di Gesù Cristo presente nella comunità, fino alla proposta di tutte le sue umanissime implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto con il creato.
6. Un lavoro comune
Il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono chiamati a lasciar trasparire il tutto. L’insieme deve brillare in ogni frammento a beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile. Vita buona e buon governo vanno infatti di pari passo.