Nella scorsa puntata della nostra rubrica abbiamo affrontato la questione, sollevata da qualche
studioso, di un (molto) ipotetico matrimonio di Gesù e ne abbiamo mostrato
l’inconsistenza storiografica, non certo per disprezzo ideologico nei confronti
di quello che sarà riconosciuto come un sacramento della Chiesa. Questo ci
spinge ora a mettere sul tappeto un matrimonio certo, quello di alcuni apostoli
di Gesù. Dobbiamo riconoscere che, proprio perché non sono biografie nel senso
stretto del termine, i vangeli non disegnano ritratti a tutto tondo dei
personaggi che li popolano, protesi come sono a illustrare l’evento storico
centrale dell’Incarnazione e soprattutto la sua dimensione trascendente. Così,
per quanto riguarda i dati anagrafici familiari degli apostoli, sappiamo poco.
Certo è che lo stato di coniugati doveva essere normale, secondo la tradizione
giudaica che attingeva alla stessa prassi biblica (Geremia, profeta celibe,
segnalava la sua situazione come un’eccezione per certi versi
"scandalosa"). È noto che Pietro fosse sposato non solo in base alla
scena della guarigione della suocera febbricitante (Mc 1,29-31), ma anche per
la testimonianza di Paolo che allarga l’informazione al matrimonio degli
apostoli e del gruppo nazaretano giudeo-cristiano dei cosiddetti "fratelli
del Signore": «Non abbiamo il diritto di portare con noi una sposa
credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?»
(1Cor 9,5). Più arduo è il tentativo di sapere qualcosa di più preciso sulla
questione delle relazioni familiari dei dodici.
I vangeli, dal punto di vista documentario, non si preoccupano di venire incontro a questa curiosità. Ma ci sono alcuni indizi e affermazioni che potrebbero gettare qualche luce. Abbiamo due serie di dati in contrappunto. Da un lato, non è da escludere che – proprio per la consuetudine giudaica che attribuiva il primato al padre-marito – le mogli avessero seguito all’inizio gli apostoli, come fa intendere Paolo nella sua dichiarazione. Durante il ministero in Galilea Gesù si spostava in un’area ristretta e coi suoi discepoli poteva essere ospitato nelle loro case, come attesta l’episodio della suocera di Pietro che "serve" a mensa. Si conservava, così, un legame tra gli apostoli e le loro famiglie, e la "casa di Pietro" messa in luce dai francescani archeologi a Cafarnao può essere la memoria di queste relazioni tra Gesù, i dodici e le rispettive residenze. Col trasferimento in Giudea questo non è più possibile, anche se sulla base della notizia offerta da Luca (8,1-3) riguardo al seguito femminile di Cristo si potrebbe ipotizzare la presenza di qualche moglie di apostolo: la vita a livello popolare nel vicino oriente era meno complessa e la civiltà sedentaria meno rigorosa della nostra. Tuttavia problemi si dovettero allora manifestare ed è a questo punto che dobbiamo segnalare le testimonianze evangeliche sul distacco. Nei vangeli sinottici incontriamo questo dialogo tra Pietro e Gesù, che riferiamo nella resa di Luca: «Pietro allora disse: "Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito". Gesù rispose: "In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà"» (18,28-30). È evidente in queste parole un distacco dagli ambiti familiari, anche se non sappiamo come sia stato in concreto affrontato e risolto, certamente non con il divorzio.
C’è qualcosa di più forte in una dichiarazione di Cristo che, citando il profeta
Michea (7,6), rivela la "divisione" che la fede in lui introduce
nelle famiglie: «D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre
contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre
contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro
suocera» (Lc 12,52-53). Ma Gesù va oltre e, usando il linguaggio semitico che
non conosce i comparativi ma usa solo gli assoluti, proclama: «Se uno viene a
me e non odia (= non ama meno di me) suo padre, sua madre, la moglie, i figli,
i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo»
(Lc 14,26). Con queste parole – che riflettono tra l’altro il dramma delle
tensioni nelle famiglie ebraiche, ove allora si registravano le prime
conversioni al cristianesimo – Gesù vuol delineare in modo generale la scelta
radicale che ogni discepolo deve compiere: il regno di Dio dev’essere al
vertice delle sue attese, del suo impegno, del suo cuore.
È su questa
linea che si svilupperà la proposta paradossale e provocatoria del celibato
come atto di donazione totale per il Vangelo e per il Regno. È quel divenire
«eunuchi per il regno dei cieli» che è suggerito in Matteo (19,12) e che Paolo
svilupperà con intensità nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi. È su
questa scia che la Chiesa cattolica, pur non cancellando mai del tutto al suo
interno un sacerdozio coniugato (ancora presente in alcune Chiese orientali),
ha proposto la via della donazione nel celibato come la scelta esemplare per il
sacerdozio ministeriale.
Gianfranco Ravasi