....Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo.
Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio. Invece, quando guardi il Signore e ti accorgi con gratitudine che Lo guardi perché Lui ti sta guardando, vanno via tutti i pregiudizi intellettuali, quell’elitismo dello spirito che è proprio di intellettuali senza talento ed è eticismo senza bontà.
Se l’inizio della fede è opera del Signore, sant’Agostino descrive anche come si rimane in questo inizio....
...E la figura che le rappresenta è Giovanni, il discepolo più amato. Giovanni rappresenta chi attende di essere amato, e rimane per grazia e non per sforzo in questa attesa. In lui appare evidente che «se non si è prima amati (cf. 1Gv 4, 19) non si può né amare né seguire» (p. 171). In lui si rinnova in ogni istante l’attesa dei gesti del Signore, l’attesa di quei nuovi inizi nei quali la libertà aderisce alla grazia «per il piacere da cui è attratta» (p. 372).
Secondo Agostino ci sono dei segni distintivi , indizi di quando si è guardati e abbracciati dal Signore.
Il primo segno è la gratitudine, il moto spontaneo del cuore che ringrazia. Agostino mette in luce che perfino la conoscenza chiara di ciò che serve per ottenere la salvezza può diventare motivo di superbia: quella che lui registrava tra i filosofi platonici del suo tempo, che «hanno visto dove bisogna giungere per essere felici, ma hanno voluto attribuire a sé quello che hanno visto e, resi superbi, hanno perduto ciò che vedevano» (p. 27). Si può arrivare a scoprire che solo in Dio c’è la felicità, ma questo sapere non commuove di per sé il cuore. Il cuore rimane triste e pieno di sé. Non si scioglie in lacrime di riconoscenza (pp. 19-25). Invece, quando uno è preso in braccio dal Signore e «abbraccia umile l’umile mio Dio Gesù» (p. 40), senza nemmeno pensarci, diventa pieno di gratitudine e dice grazie. E in questa gratitudine diventa anche buono. Don Giacomo scrive che «si è buoni non perché si sa cosa è il bene, si è contenti non perché si sa cosa è la felicità. Si è buoni e si è felici perché si è abbracciati dal bene e dalla felicità» (p. 330).
Per Agostino, la gioia promessa dal Signore ai suoi è data e vive in spe, in speranza. Che vuol dire? L’espressione in spe negli scritti di Agostino indica che questa felicità è sempre una grazia. Nella nostra condizione terrena, questa è un’evidenza immediata per tutti: la felicità su questa terra, promessa come caparra della felicità celeste, non nasce da noi, non la possiamo costruire noi e nemmeno conservare e padroneggiare noi. Non è nelle nostre mani, e quindi risulta precaria, secondo gli schemi di chi crede di costruire la vita come un proprio progetto. È la felicità dei poveri, che ne godono come dono gratuito. La felicità di chi vive sempre sospeso alla speranza del Signore, e proprio per questo è tranquillo. Perché è una cosa bella vivere sicuri che il Signore ci ama per primo, ci cerca per primo. Il Signore della pazienza che ci viene incontro sperando che noi, come Zaccheo, saliamo sull’albero dell’humilitas. A Lui sant’Agostino rivolge la bella preghiera riproposta di recente anche da Benedetto XVI, che può sintetizzare anche tutto questo libro: «Concedi ciò che comandi, e poi comanda ciò che vuoi». Concedici il dono di tornare come bambini, e poi domanda di essere come bambini, per entrare nel Regno dei cieli.
Questi sono alcuni dei tanti accenti e spunti contenuti in questo libro che possono essere un prezioso conforto per molti, ben al di là della cerchia degli esperti e degli studiosi.
Per questo gli auguro fortuna, mentre tutti gli amici di Agostino si apprestano a ricordare che sono trascorsi 1.600 anni da quando il santo vescovo d’Ippona, davanti al sacco di Roma, ebbe l’ispirazione di scrivere la Città di Dio.