....Nel Cristo Dio fatto uomo , troviamo il sostegno per la nostra debolezza e le risorse per raggiungere la perfezione. L'umanità di Cristo ci rimette in piedi , la sua condiscendenza ci prende per mano , la sua divinità ci fa giungere alla méta....


S.Agostino

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domenica 30 giugno 2013

Cardinal Piacenza : il sacerdote deve convertirsi continuamente

 
Madrid, 28 maggio 2013
Conferenza Episcopale Spagnola
«La conversione del sacerdote nell’Anno della Fede»

Intervento del Card. Mauro Piacenza
Prefetto della Congregazione per il Clero


Carissimi Sacerdoti,
è con profonda gioia che condivido con voi questo momento di riunione e formazione all’interno della Conferenza Episcopale Spagnola, della quale saluto, con grande stima, il Presidente, e della quale conosco il profondo impegno nell’ambito della formazione, in generale, e della formazione del Clero, in particolare.
All’interno del grande cammino dell’Anno della Fede, mi è stato chiesto di proporre una riflessione sulla conversione del sacerdote. Nell’ambito della grande categoria di conversione, articolerò, pertanto, il presente intervento in due fondamentali punti: il sacerdote, uomo di fede, e il sacerdote, che è chiamato, per grazia, a sostenere la fede dei suoi fratelli.
Vorrei parlare dell’aspetto personale della conversione e dei risvolti pastorali, che essa sempre comporta.

1. Il sacerdote, uomo di fede.
All’interno del grande tema delle vocazioni, della loto qualità del loro numero e del discernimento, che sempre deve essere attento e competente, nel contemporaneo contesto secolarizzato, il primo dato, apparentemente scontato, ma che, in realtà, mai può, né deve essere sottovalutato, riguarda esattamente la fede dei candidati. Sin dal tempo del Seminario la Chiesa è infatti chiamata ad accogliere coloro che ritengono di aver ricevuto una soprannaturale vocazione al Sacerdozio, verificando, innanzitutto, che essi siano uomini di fede e che, in una fede limpida, robusta, provata e, perciò, capace di sfidare la cultura dominante, si innestino sia la vocazione in quanto tale, sia tutte quelle virtù umane e cristiane, in forza delle quali sia possibile non soltanto non individuare ostacoli all’ordinazione, ma giungere alla certezza morale che essa sia effettivamente un vero bene per la Chiesa.
Lo Spirito dispone, nella vita di ciascuno di noi, tappe e momenti di progressiva conversione e nessuno può mai dirsi “arrivato”, fino al giorno dell’ultima chiamata ad entrare nella Casa del Padre; cionondimeno, è sempre necessario, sia nei candidati al Sacerdozio, sia nel cammino di coloro che già sono stati insigniti dell’Ordine Sacro, valutare come la “mentalità evangelica”, l’avere il pensiero di Cristo, come direbbe San Paolo, rappresenti elemento costitutivo ed indispensabile del proprio profilo psico-spirituale.
Senza unilaterali enfatizzazioni, è necessario, da un lato, riconoscere l’importanza fondamentale del tempo della formazione iniziale, nel quale, non di rado, vengono poste le basi per una vita realizzata, in un ministero santo, e, dall’altro, come il concreto, quotidiano e generoso esercizio del ministero, plasmi, progressivamente, l’esistenza e l’anima sacerdotale, chiamando giorno dopo giorno a conversione negli aspetti che ancora ne avessero bisogno, o in quegli ambiti di maggiore radicalità ed eroicità che nel tempo possono maturare.
Il sacerdote è uomo di fede, innanzitutto, se vive in costante, profondo rapporto con Dio. Qualunque sia il compito che la Chiesa ci affida – ci toccasse anche di rivestire incarichi di tipo amministrativo –, siamo e restiamo uomini di Dio, chiamati, in ogni istante della propria vita, a stare al suo cospetto, a pensare come lui pensa e a volere ciò che lui vuole.
Nell’Anno della Fede, una prima radicale conversione potrebbe proprio essere questa: ricentrare le nostre esistenze sacerdotali su Dio, riconoscendone il primato e divenendo, perciò, quasi radicalmente estranei ad una cultura e ad un tempo, che, ostinatamente, negano Dio ma, contemporaneamente vicinissimi al cuore di ogni uomo di questo tempo e immerso in questa cultura. Certamente ogni uomo, anche il più “lontano” è cercato da Dio e, anche se inconsciamente, cerca Dio.
Questa radicalità del rapporto con Dio, questo benedettino “nulla anteporre all’amore di Cristo”, può nascere e maturare solo all’interno di un autentico spirito di preghiera. La preghiera, per il sacerdote, non è soltanto un ufficio da adempiere; essa è un respiro da mantenere, nel quale, costantemente, sintonizzare il proprio cuore con il Sacro Cuore del Sommo Sacerdote. Solo nella preghiera, è possibile ricevere in dono quella soprannaturale immedesimazione con Cristo, che ci fa percepire l’identità sacerdotale, come qualcosa di assolutamente proprio e del tutto coincidente con la nostra stessa identità psico-personale.
Solo in ginocchio, davanti al Tabernacolo e in attento ascolto della Parola, è possibile vivere e rinnovare, costantemente, il necessario passaggio dal “fare il sacerdote” all’“essere sacerdote”; da un ministero esigente e che, a volte, può umanamente stancare, ad un dono costante, che immedesima a Cristo Crocifisso, immolato per la salvezza degli uomini; da un’estraneità, inevitabile, nel confronto con la cultura dominante, che, avendo eliminato Dio, non sa più che farsene dei sacerdoti e la compagnia della divina presenza, dello Spirito consolatore e di fortezza, che rendono “totalmente altro” il sacerdote, anche rispetto alla sua stessa comprensione del ministero, che gli è affidato.
Dobbiamo, in questo Anno della Fede, innanzitutto, convertirci al nostro Sacerdozio! Convertirci, cioè, arrenderci, sempre e di nuovo, a quell’intervento straordinario e soprannaturale, che Dio ha operato nella nostra vita, configurandoci per sempre al Figlio Suo unigenito ed inviandoci “nel” mondo ammonendoci a non essere “del” mondo proprio per la salvezza del mondo. Purtroppo talvolta si riscontra una simpatia per il mondo, che nasce dall’essere ancora del mondo e dal condividerne le categorie di giudizio e le misure di valore, e non è sacerdotale. C’è, invece, una simpatia per il mondo, che è, in realtà, vera passione, cioè capacità di dare la vita, che nasce dall’immedesimazione con il Figlio Eterno del Padre, che è entrato nella storia, per salvarla dal di dentro, che è il totalmente altro dal mondo, nel mondo, e che ci ha comandato di essere “nel” mondo, ma non “del” mondo (cf. Gv 15,19).
Vivere un’autentica dimensione orante e convertirsi quotidianamente al proprio Sacerdozio, sono realtà possibili solo nel Corpo della Chiesa. Se molti sostengono che, oggi, il vero problema sia di carattere ecclesiologico, cioè quale idea abbiamo di Chiesa e quale esperienza facciamo del Corpo di Cristo, di cui siamo parte, è necessario riconoscere come, nella dinamica stessa dell’atto di fede, la conversione non sia mai conversione ad un’idea, o ad un atto moralisticamente inteso, ma ad una presenza. Ci si converte solo davanti ad una presenza! E tale presenza è la Chiesa, Cristo nel nostro tempo.
Convertirsi come sacerdoti, nell’Anno della Fede, significa domandarsi, con umiltà: “Io, a chi appartengo?”; “di chi sono?”.
Appartenere a Dio, essere di Cristo e vivere in Cristo, come esplicitamente ricordato da Papa Francesco, significa sapere di appartenere al suo Corpo, che è la Chiesa. Appartenervi, non in modo semplicemente fattuale, o giuridico, perché è evidente che un sacerdote appartiene alla Chiesa, ma in modo profondamente esistenziale, radicato nello Spirito Santo e perciò spirituale, in modo sacramentale, cioè reale. Se apparteniamo realmente al Corpo di Cristo, che è la Chiesa, è la stessa vita divina, che in essa si respira, a convertire, progressivamente, le nostre esistenze. Convertirsi, in un profondo spirito di orazione, alla propria identità sacerdotale, significa rinnovare l’esperienza – e con essa il giudizio – di appartenenza alla Chiesa.
Un’appartenenza non meramente localistica, o soggettivamente intesa, ma un’appartenenza capace di definire e sostenere la propria identità. Come, in una famiglia, i figli crescono lieti e certi nella esperienza di appartenere ai propri genitori – e tale rapporto è quanto mai vitale per la loro stabilità e maturità –, così ogni sacerdote – come, del resto, ogni cristiano – è chiamato ad una chiarezza di appartenenza; è chiamato ad essere sacerdote della Chiesa, nella Chiesa e per  la Chiesa, riconoscendo in essa non soltanto un’organizzazione, né una associazione umana, ma la presenza stessa di Cristo Risorto nel mondo. Presenza che, attraverso il limite umano, riecheggia potentemente, nei secoli, il grande scandalo dell’Incarnazione.
Che l’Anno della Fede sia, allora, innanzitutto per il sacerdote, un anno di profonda riscoperta intimità con Dio, della propria soprannaturale identità sacramentale, gratuitamente donata ed accolta, e dell’appartenenza alla Chiesa, Madre e Sposa.

2. Chiamati, per grazia, a sostenere la fede dei fratelli
Nei racconti delle apparizioni del Risorto, che leggiamo in questo Tempo pasquale, colpisce sempre, con rinnovato stupore, il legame tra effusione dello Spirito e annuncio, Pentecoste e missione. Il sacerdote, come ci ha efficacemente ricordato Papa Francesco, non riceve lo Spirito, l’unzione, per se stesso, ma per ungere il Popolo. Il dono dello Spirito, ricevuto nel giorno della nostra Ordinazione, non è premessa della missione, ma è esso stesso la missione. Nella misura in cui si rinnova il dono della fede, nella chiarezza di una ecclesiale appartenenza, nella misura in cui ciascun sacerdote, sempre e continuamente, si converte a Dio, la missione diviene straordinariamente dinamica e portatrice di imprevisti frutti.
Solo chi ha una reale, profonda cura della propria fede, chi è realmente, davvero convertito, può farsi carico della fede altrui. La missione, in una forse minima ma efficace accezione, può essere compresa proprio in questo modo: noi siamo uomini di fede, che, non per mera filantropia, né per migliorare il mondo, ma per divino, soprannaturale mandato, ci prendiamo cura, accompagniamo e sosteniamo la fede dei nostri fratelli e delle nostre sorelle nell’unico Signore Gesù Cristo, nella sua Incarnazione, morte e Risurrezione, e nella Santa Chiesa, che di lui, in lui e per lui vive.
In un contesto, dove l’individualismo la fa da padrone e dove nessuno sembra più capace di prendersi cura di alcuno, la rilevanza di una tale vocazione può essere straordinariamente efficace.
Essendo quello religioso il fattore straordinariamente sintetico della personalità umana e della stessa vita, prendendoci cura della fede delle persone, inevitabilmente, ci prendiamo cura di tutto ciò che riguarda i nostri fratelli. In questo senso, non c’è alcuna precedenza, come taluni potevano pensare nei decenni passati, tra promozione umana ed evangelizzazione, ma la più grande evangelizzazione è anche, necessariamente, promozione umana, e il concetto stesso di promozione umana sarebbe semplicemente impensabile, se Dio non avesse “mosso” l’umanità, facendosi egli stesso uomo.
Convertirsi nell’Anno della Fede significa, allora, vivere un’intensa passione per la fede dei nostri fratelli, nella docilità al mandato ecclesiale e nella consapevolezza che gli strumenti, per sostenere tale opera, non sono, in alcun caso, arbitrariamente stabiliti e scelti da noi, ma donati da Dio e resi attuali ed operanti dallo Spirito Santo.
Ciò che è straordinariamente sorprendente, in questo contesto, è la imprescindibile, mutua relazionalità tra conversione personale e missione. Mi spiego.
Possiamo tutti testimoniare di aver personalmente sperimentato come il popolo a noi affidato guardi, con particolare interesse, alla nostra fede e ne possa essere autenticamente edificato. Allo stesso modo, non è difficile riconoscere come il vivere la missione e l’essere realmente al servizio della fede dei fratelli sia, non raramente, motivo e causa seconda della nostra rinnovata conversione a Dio. Quante volte la confessione del più semplice dei penitenti, il candore del più piccolo dei bambini, o l’offerta consapevole della sofferenza dei malati, il sensus Ecclesiae di tante povere persone semplici, ci colpiscono, ci chiamano a conversione e – tra di noi preti, possiamo dircelo – ci fanno toccare Dio!
Il ministero, che ci è stato affidato, è quanto di più straordinario possa essere dato di vivere ad un uomo nel breve tratto umano della terrena esistenza, poiché, costantemente, grazie proprio al fedele esercizio del nostro ministero, possiamo contemplare le opere di Dio, che chiama, converte, plasma e santifica le anime. E contemplare le opere di Dio, il suo reale agire nel mondo, significa contemplare Dio stesso; significa annunciare non un’idea, o un precetto, ma colui che i nostri occhi hanno visto, che i nostri orecchi hanno udito, che le nostre mani hanno toccato: il Verbo della Vita.
Anche solo dal punto di vista della gratificazione umana che ne deriva, l’accompagnamento della fede e nella fede, verso i nostri fratelli, è opera straordinariamente alta e nobile. Se aggiungiamo, poi, che questo è compiuto nel nome e per mandato esplicito del Signore del cielo e della terra, del Risorto, del Salvatore e Sacerdote eterno, ecco che l’Anno della Fede diviene occasione di profonda conversione da uno sguardo solo umano, troppo umano, sulle nostre realtà ecclesiali, ad uno sguardo davvero realista, cioè soprannaturale e, perciò, sempre nuovo, misericordioso e autenticamente pastorale.
Prendersi cura della fede altrui, allora, non sfianca la nostra fede, ma la irrobustisce! Non è da interpretare come una sequenza di atti, nella quale c’è un prima e un dopo, ma l’atto stesso di curare la fede dei fratelli incrementa la nostra fede e la nostra conversione; e la nostra conversione è il primo alimento della fede dei fratelli.
Se un cristiano non convertito può dare scandalo, quanto più radicale e nefasto è lo scandalo di un sacerdote non convertito!
È sempre necessario tenere insieme, come richiama esplicitamente il Motu proprioPorta fidei” di Benedetto XVI, con il quale è stato indetto l’Anno della Fede, le due dimensioni “cognitiva” e “oblativa” della fede, la fede come conoscenza e la fede come abbandono.
Le varie epoche storiche e le differenti influenze culturali possono vedere un certo prevalere ora dell’una, ora dell’altra dimensione, ma la saggezza della Santa Madre Chiesa e la reale conversione di un sacerdote le tiene sempre, graniticamente unite.
Che sciagura sarebbe un sacerdote convinto, ma non convertito, che aderisse al Cristianesimo come ad una delle umane ideologie. E che disorientamento sarebbe, per se stesso e per gli altri, un sacerdote convertito, ma non convinto, che non abbia fatto sue, interiorizzato autenticamente e amato profondamente le ragioni della fede e la stessa immedesimazione con Cristo.
Oggi più che mai, in un contesto così gravemente secolarizzato come quello occidentale, essere missionari, prendersi cura della fede altrui significa, innanzitutto, essere autenticamente convertiti e, quindi, convinti. Nello stesso tempo, significa accompagnare tutte le persone a noi affidate a compiere, sia personalmente, sia nella comunità ecclesiale, quella indispensabile sintesi tra fede come conoscenza e fede come abbandono, senza la quale non c’è reale esperienza cristiana. Dobbiamo sempre ricordare che, per il mandato divino ricevuto, i buoni e il popolo ci guardano come esempio, attendendosi da noi una parola certa, una testimonianza cristallina ed una paternità autenticamente capace di accompagnare.
Questa paternità – vi sembrerà strano, ma è così – si impara alla scuola di una Madre: la Beata Vergine Maria. Lei, Regina degli Apostoli e Virgen del Pilar, ci aiuti nella costante opera di personale ed ecclesiale accoglienza della grazia della conversione e, insieme, faccia di noi pastori autentici, capaci di non perdere le pecore e di vivere autenticamente con loro e per loro.
Per questo prego sempre per tutti i Sacerdoti del mondo e, con loro, per me stesso affinché ogni giorno possiamo diventare ciò che siamo!