Carissimi,
iniziamo l’Anno della
Fede con l’ascolto di una parola difficile, la
pagina del Vangelo
secondo Marco appena letto e che non ci chiede tanto
di essere poveri ma di
considerare Gesù come l’unica ricchezza. Questo è
l’invito rivolto oggi
alla Chiesa di Venezia.
L’Anno della Fede è
dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi
come grazia,
opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per
essere viva Chiesa del
Signore.
Benedetto XVI - nella
lettera apostolica Porta fidei che ha indetto
l’Anno - riprende
l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al
discepolo Timoteo e lo
esorta a “cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la
stessa costanza di
quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)” (PF, 15).
E, poi, continua: “Sentiamo
questo invito rivolto a ciascuno di noi,
perché nessuno diventi
pigro nella fede: Essa è compagna di vita che
permette di percepire
con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio
compie in noi” (PF, 15).
Questo invito è rivolto
alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai
presbiteri, ai diaconi,
ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani,
ai sani, ai malati, a
tutti: nessuno escluso. L’Anno della Fede è,
innanzitutto, un anno di
conversione.
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1. L’Anno della Fede:
una grazia di conversione
Crescere nella fede vuol
dire, semplicemente, appartenere a Dio e
testimoniare con la vita
battesimale il Signore Gesù; per questo
necessitano occhi nuovi
che sappiano guardare oltre il momento presente,
liberi nel coglierlo
secondo la verità e la giustizia.
Ora, la domanda “venga
il tuo Regno…” (Mt. 6,10) - che Gesù pone
all’inizio del Padre
Nostro - non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi
a un presente che,
talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita
a compiere qualcosa di
concreto attraverso una vita di fede più attenta e
generosa con cui,
rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente
comunicandogli il
respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di
verità e di giustizia
che sono intorno a noi.
In questo tempo di
grazia - che è l’Anno della Fede - pastori e fedeli
sono chiamati a
testimoniare personalmente e comunitariamente quanto
l’apostolo Paolo, al
termine della vita, scrive a Timoteo: “So… in chi ho
posto la mia fede e sono
convinto che egli è capace di custodire fino a quel
giorno ciò che mi è
stato affidato” (2Tm 1,12).
L’Anno della Fede -
indetto da Benedetto XVI per celebrare i
cinquant’anni
dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i
vent’anni della
promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica - ci
chiama personalmente in
causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando
all’esame di coscienza
sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.
Benedetto XVI,
all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui
promulga per la Chiesa
l’Anno della Fede, così si esprime: “La ‘PORTA
DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che
introduce la vita di comunione con Dio
e permette l’ingresso
nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’
possibile oltrepassare
quella soglia quando la Parola di Dio viene
annunciata e il cuore si
lascia plasmare dalla grazia che trasforma.
Attraversare quella
porta comporta immettersi in un cammino che dura
tutta la vita. Esso
inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale
possiamo chiamare Dio
con il nome di Padre…” (PF, 1).
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Una revisione di vita
che voglia essere vera conversione deve
qualificarsi,
innanzitutto, in termini di critica “generosa”, ossia in termini
di autocritica. Il che
significa: non puntare il dito contro nessuno.
Bisogna superare le
recriminazioni, forse anche espressioni di animi
“storicamente”
amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di
perdono generoso. Se è
il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più
coraggio, con più
fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di
riconciliazione. L’Anno
della Fede deve cominciare qui.
La questione decisiva, o
“caso serio” nel nostro personale cammino
verso una fede più
matura, richiede di fare nostre sine glossa - ossia senza
interpretazioni di
comodo - le pagine difficili del Vangelo, cominciando
proprio da quelle sul
perdono e da quella di Marco che abbiamo appena
ascoltato.
Si tratta di far
esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire
vere relazioni personali
e comunitarie.
Un’idea di tolleranza
non fondata sulla verità, alla fine, risulta
fuorviante e destinata a
condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca
estraneità.
2. “Io credo”, “noi
crediamo”: salvati con gli altri
Bisogna - secondo l’esortazione
dell’apostolo Paolo - non esser pigri
nella fede ma,
piuttosto, saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di
Dio. La fede non si
esaurisce nell’atto personale del credere.
L’affermazione “io
credo” porta sempre con sé anche la dimensione
comunitaria del credere
con gli altri, vale a dire “noi crediamo”.
La forma ecclesiale del
credere è parte strutturale della fede. Noi,
infatti, un giorno
abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno,
qualcuno ci ha
rinsaldati in essa. Emblematico è il caso di Saulo che, dopo
l’incontro diretto col
Cristo risorto, viene mandato da Anania che lo
introdurrà nella vita di
fede, nella vita della Chiesa (cfr. At 9,10-19).
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Ciascuno di noi, in modo
simile, condivide la fede con chi gliel’ha
annunciata e con quanti,
insieme a lui, credono. Sì, la fede va condivisa
con gli altri, o meglio
con la Chiesa, all’interno della comunione del
popolo di Dio che - come
insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II - va
intesa sempre come
unione di fedeli e pastori.
Le parole della
costituzione dogmatica Lumen gentium, in proposito,
sono chiare: “La
totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dallo
Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27),
non può sbagliarsi nel credere, e
manifesta questa sua
proprietà mediante il senso soprannaturale della
fede di tutto il popolo,
quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici»
mostra l'universale suo
consenso in cose di fede e di morale. E invero, per
quel senso della fede,
che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e
sotto la guida del sacro
magistero, il quale permette, se gli si obbedisce
fedelmente, di ricevere
non più una parola umana, ma veramente la
parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13)…” (LG,
12).
Henri de Lubac, grande
storico della teologia che ha preparato con il
suo pensiero il Concilio
Ecumenico Vaticano II, circa la connotazione
ecclesiale della fede
così s’esprime: “L’io che crede in Gesù Cristo non
può essere altro che la
Chiesa di Gesù Cristo. La fede del cristiano è
dunque partecipazione
alla fede della Chiesa. Ma una fede non è fede
“nella” Chiesa, è fede
“della” Chiesa… L’anima cristiana è un’anima
ecclesiastica” (H. de Lubac,
Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book,
Milano, 1979, 109).
Si dice letteralmente: “l’anima
cristiana è un’anima ecclesiastica” e
con ciò si riconoscono
ed evidenziano gli elementi che, anche
storicamente, segnano la
vita di fede della Sposa del Signore.
Un pensiero ricorrente
nel magistero di Benedetto XVI ribadisce che
l’uomo si pone in
relazione con Dio proprio attraverso il prossimo. Noi,
d’altra parte,
comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti
della fede. Si dice
comunemente: crediamo le stesse “cose”.
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Due persone che non si
conoscono, che non appartengono alla stessa
cultura e non parlano la
stessa lingua ma credono in Gesù Cristo,
attraverso la loro fede,
comunicano fra loro nelle cose più importanti.
Condividono, infatti, le
risposte alle domande fondamentali dell’uomo:
Chi sono? Da dove vengo?
Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia
fragilità? C’è qualcosa
dopo questa vita? Che cos’è il bene? Che cos’è il
male?
Si manifesta, così, la
dimensione comunitaria del credere e
Benedetto XVI lo
evidenzia. L’uomo non è chiamato da solo alla salvezza
ma all’interno della
comunità ecclesiale: “Con il suo amore, Gesù attira a
sé gli uomini di ogni
generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa
affidandole l’annuncio
del vangelo, con un mandato che è sempre nuovo”
(PF, 7).
Nella Chiesa ogni realtà
è personale e, nello stesso tempo,
comunitaria. Nulla è
individuale, a iniziare dalla fede che introduce l’uomo
nel mondo di Dio e
nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro.
Quando Gesù comincia ad
annunziare il Regno, raduna attorno a sé il
nuovo popolo di Dio,
costituito inizialmente dai Dodici e dai discepoli.
Gesù, poi, congiunge il
gesto sacramentale del pane spezzato e del vino
effuso - che fra poco
ripeteremo - con la piena comunione ecclesiale. La
salvezza non si esprime,
così, come la presenza individuale di Gesù nelle
coscienze dei singoli ma
nel dono di Lui vivente e presente nella Chiesa, il
suo corpo. Sant’Agostino
parla, a ragione, della Chiesa come del Christus
totus, il Cristo integrale
(cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 85,1, in
PL, 36, 1081).
La dimensione
comunitaria della fede non solo non schiaccia l’io
personale ma fa in
maniera che il singolo credente non cada in una fede
facile ed illusoria che
potremmo definire una fede fai da te, oggi molto di
moda.
La fede - nella sua
dimensione comunitaria e relazionale - è, alla fine,
essenziale e permette al
soggetto di raggiungere la pienezza umana.
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La fede fai da te è
comunque rischio ricorrente soprattutto per la
nostra epoca, segnata
dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni
cosa all’interno di un
soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella
vicenda storica di Gesù
di Nazareth, finisce per imbattersi nel proprio io o,
più realisticamente,
nella cultura dominante del determinato momento
storico.
In altri termini -
stante il progetto di Dio rivelato nel Signore Gesù -
gli uomini non sono
chiamati a una salvezza individuale ma donata a un
popolo costituito su un
fondamento imprescindibile: Pietro e i Dodici,
coloro che il Signore si
è scelto. La loro fede sarà, per sempre, il
fondamento della fede
ecclesiale.
Il libro degli Atti
degli Apostoli, fin dalle prime pagine, ne è la
diuturna testimonianza:
“Erano perseveranti nell’insegnamento degli
Apostoli e nella
comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere. Un
senso di timore era in
tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli
apostoli. Tutti i
credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune;
vendevano le loro
proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il
bisogno di ciascuno” (Atti, 2, 43-46).
Insieme a un tale quadro
idilliaco, non vanno sottaciuti il peccato di
Anania e Saffira (cfr.
At 5,1-11), il comportamento dell’incestuoso di
Corinto che vive con la
moglie di suo padre (cfr. 1Cor 5, 1-5), le divisioni
della stessa comunità
che provocano nell’apostolo Paolo espressioni che ci
sorprendono: “…verrò
presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto
non già delle parole di
quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che
sanno veramente fare. Il
regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in
potenza. Che cosa
volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore
e con dolcezza d’animo? ” (1Cor 4, 19-21).
I Dodici rimarranno,
comunque, il fondamento: coloro che hanno
visto e ascoltato il
Signore e hanno vissuto con Lui, quelli che l’hanno
seguito a Gerusalemme,
l’hanno visto morire in croce ma, soprattutto,
l’hanno incontrato
nuovamente vivo il terzo giorno, realmente risorto e,
concordi, testimoniano
che è apparso a Simone (cfr. Lc 24,34).
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La Chiesa è fondata sui
Dodici, gli inviati del Risorto. E, dopo, i loro
successori che
continuano l’opera apostolica, evangelizzando fino agli
estremi confini della
terra. La nostra fede è sempre fede apostolica.
L’Anno delle Fede è,
nello stesso tempo, itinerario personale del
discepolo ed ecclesiale
dell’intera Chiesa. Costituisce un percorso che
conduce il credente
verso un più vero e intenso incontro con la persona di
Gesù, la quale dà alla
vita dell’uomo un nuovo orizzonte e la direzione
decisiva (cfr. PF, 1).
Il Concilio Ecumenico
Vaticano II - come insegna Benedetto XVI -
s’inserisce in un
cammino ecclesiale di riforma nella continuità.
All’inizio della
Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen
gentium, troviamo queste
parole: “Cristo è la luce delle genti, e questo
sacro concilio…
ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul
volto della Chiesa,
illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad
ogni creatura” (LG n.1).
Cristo - col suo
Vangelo, il suo “buon annuncio” - ci raggiunge
tramite la Chiesa e il
suo ministero. Fondamentale è l’esperienza personale
di quei Dodici, a
partire dagli incontri che ebbero col Signore risorto il
giorno successivo al
sabato.
La Chiesa, negli uomini
e donne che la compongono, è la prima
destinataria
dell’annunzio cristiano: “…davvero il Signore è risorto!” (cfr.
Lc 24, 34). Poi, a sua
volta, diventa il soggetto evangelizzante per
antonomasia a cui
compete l’onore e l’onere dell’annuncio.
Benedetto XVI lo
sottolinea quando, nella Lettera Porta fidei,
afferma: “La stessa
professione di fede è un atto personale e insieme
comunitario. E’ la
Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… “Io
credo”: è anche la
Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua
fede che ci insegna a
dire “Io credo”, “Noi crediamo” (PF, 10).
E’ necessario,
all’inizio dell’Anno della Fede, di nuovo ascoltare il
richiamo dell’apostolo
Paolo che, nella lettera ai Romani, parla del
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compito e della missione
della Chiesa nei confronti dell’annuncio del
vangelo cristiano: “Ora,
come invocheranno colui nel quale non hanno
creduto? Come crederanno
in colui del quale non hanno sentito parlare?
Come ne sentiranno
parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo
annunceranno, se non
sono stati invitati? Come sta scritto: ‘Quanto sono
belli i piedi di coloro
che recano un lieto annuncio di bene!’ ” (Rm 10, 14-
15). Le nostre comunità
devono essere comunità mandate ad annunciare.
E’, quindi, attraverso
la Chiesa “mandata” che noi incontriamo Dio e
possiamo credere in Lui.
Ma nonostante ciò - come detto - l’atto di fede
rimane gesto libero
della persona, seppur scandito nella comunità
ecclesiale e attraverso
di essa, mai al di fuori o senza essa. Certo, è un
dono, ma è un dono che
Dio non fa mancare a nessuno: altrimenti non
sarebbe più Dio e
ragionerebbe con i criteri degli uomini… Non bisogna
essere filosofi per
capire che se Dio c’è e la fede salva, il dono della fede
Dio non lo fa mancare a
nessuno.
Secondo tale logica,
immaginare un incontro con Dio escludendo il
prossimo equivarrebbe ad
una radicale incomprensione della rivelazione
cristiana per la quale gli
altri - per la stessa volontà di Gesù - sono segni
dell’incontro con
l’Altro.
Ed è Gesù che ce lo
ricorda: “Se due di voi sulla terra si metteranno
d’accordo per chiedere
qualcosa, il Padre mio che è nei cieli, gliela
concederà. Perché dove
sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in
mezzo a loro” (Mt 18, 19-20).
Dato che la fede di cui
parla Gesù è sempre intimamente legata
all’amore, allora, nella
vita di fede, assume particolare rilevanza l’apertura
del cuore. Fede e carità
si esigono a vicenda; per questo l’Anno della Fede
deve essere occasione
per crescere nella testimonianza reciproca della
carità.
Una vita di fede priva
delle opere - e per il cristiano la prima opera è
la carità - costituisce,
di per sé, un’obiezione fondamentale alla fede. Si
tratterebbe di una
contraddizione in termini: non è vera, non è genuina,
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non è salvifica una fede
che sia incapace d’amare. Si può dire, piuttosto,
che è una fede che ha
smarrito se stessa (cfr. PF, 14).
In tale prospettiva
comprendiamo quanto sia decisivo ciò che
Giovanni scrive nella
sua prima lettera: “Se uno dice: “io amo Dio” e odia
suo fratello, è un
bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che
vede, non può amare Dio
che non vede. E questo è il comandamento che
abbiamo da Lui: chi ama
Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 20-21).
Così la fede -
soprattutto quando l’ascolto si fa preghiera - conduce a
vivere la comunione più
intensa con Dio, una comunione che si esprime in
una fraternità più
grande che sorprende e riempie di stupore quanti sono
coinvolti. Il culto,
ricordiamolo bene, non risulta gradito a Dio se non
esprime un cuore
riconciliato.
Il Vangelo di Matteo ci
avverte in proposito: “Se dunque tu presenti
la tua offerta
all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa
contro di te, lascia lì
il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti
col tuo fratello e poi
torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23).
La fede, poi, si esprime
secondo modalità e gesti pubblicamente
rilevabili: la domenica
e le festività proprie della religiosità popolare, gli
usi e i costumi di
determinate popolazioni e territori ma soprattutto - lo si
ribadisce - la domenica,
giorno del Signore.
Il rischio, soprattutto
in epoche che si caratterizzano per la veloce
transizione - la
cosiddetta società liquida -, è confondere il patrimonio, che
esprime la grande
Tradizione, con un passato che, invece, non ha più la
forza d’incidere sul
presente dei singoli e delle comunità.
Allora diventa oltremodo
facile passare ad una fede che, nei fatti, non
risponde più a una
scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e
agire ma, piuttosto, a
un freddo conformismo a cui ci si consegna e
aggrappa e del quale si
ha bisogno per coprire le proprie insicurezze.
Un altro pericolo, sul
quale siamo chiamati a vigilare, consiste nel
rischio di confondere
l’elemento religioso dell’atto di fede con quello
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sociale/sociologico che
può caratterizzare un particolare territorio o una
determinata popolazione.
Anche gli antagonismi e le
guerre di religione non sono contrasti
intrinsecamente connessi
ad una fede vera e autentica ma, piuttosto,
appartengono alla vita,
alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di
una società. Lo
ribadiamo: non alla genuina vita di fede.
3. I contenuti della
fede
L’Anno della Fede, oltre
che ricordare il cinquantesimo anniversario
dalla solenne
inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11
ottobre 1962), intende
anche richiamare, a vent’anni dalla sua
promulgazione (11
ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Chiedo a tutti,
soprattutto ai parroci, la lettura meditata delle quattro
Costituzioni conciliari
e del Catechismo della Chiesa Cattolica: siano i
cammino che ci
accompagnano lungo l’Anno della Fede sia a livello
personale sia
comunitario. I due livelli - personale e comunitario - sono,
infatti, necessari per
una vera comprensione dei grandi testi in cui si trova
condensata la saggezza
dell’ultimo Concilio.
E’ vivo desiderio del
Santo Padre Benedetto XVI - come lo fu già del
suo predecessore, il
beato Giovanni Paolo II - fare in modo che il
Catechismo, in cui è
trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II,
trovi una più grande
accoglienza presso le nostre comunità.
E proprio Giovanni Paolo
II vent’anni fa, nella Costituzione
Apostolica Fidei
depositum, ricordava come tale idea si manifestò in
occasione dell’Assemblea
Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata
nel 1985, a vent’anni
dalla conclusione del Concilio; si trattò, quindi, di
un’esplicita richiesta
proveniente dai padri sinodali.
Giovanni Paolo II
affermava così d’aver fatto suo il desiderio
espresso dal Sinodo
dando un’autorevolezza più grande a quel voto. In tal
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modo conferiva a questo
desiderio l’avvallo del successore dell’Apostolo
Pietro (cfr. Fidei
Depositum, Introduzione).
E’ importante che
nell’Anno della Fede, nella nostra Chiesa
particolare - vescovo,
parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici -
trovino cordiale
accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il
Catechismo della Chiesa
Cattolica. Sarà un gesto concreto di recezione e
di amore verso il
Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno
sia assunto da tutti e,
in modo particolare, dai parroci.
Ricordo, pure, che la
piena recezione del Vaticano II chiede di
promuovere nei nostri
cammini formativi, personali e comunitari,
l’apertura al mondo. Da
guardare con simpatia, con amicizia e con quel
giudizio di critica che
non è condanna ma che non rinuncia a dire la verità
di Gesù Cristo.
Ancora il beato Giovanni
Paolo II - sempre nella Costituzione Fidei
Depositum - si è servito di
espressioni da cui traspare l’autorevolezza delle
sue parole: “Il
Catechismo della Chiesa cattolica… di cui oggi ordino la
pubblicazione in virtù dell’autorità
apostolica, è un’esposizione della fede
della Chiesa e della
dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra
Scrittura, dalla
Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa” (Fidei
Depositum, parte IV).
Fin da questi primi mesi
la lettura del Concilio Vaticano II e del
Catechismo della Chiesa
Cattolica entri abitualmente nella pastorale
ordinaria delle
parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle
associazioni e
aggregazioni laicali.
Ritengo che un proficuo
approccio al testo del Catechismo sia offerto
dal Compendio dello
stesso Catechismo che, in modo agile e organico,
introduce e presenta
quanto il testo dice circa la professione di fede, i
sacramenti, la vita
cristiana e la preghiera della Chiesa.
Tutto ciò ci accompagni
nel nostro cammino di una fede che vuole
amare e di un amore che
vuole essere confermato nella fede di Gesù
Cristo.
12
Mi ha colpito, infine,
il passo con cui si chiude la prefazione del
Catechismo della Chiesa
Cattolica che assume - e fa suo - il principio
pastorale del Catechismo
Romano, espressione del Concilio di Trento,
promulgato da papa San
Pio V. Tale passo, che è bene conoscere, per molti
costituirà - penso - una
felice sorpresa: “Tutta la sostanza della dottrina e
dell’insegnamento deve
essere orientata alla carità che non avrà mai fine.
Infatti sia che si
espongano le verità della fede o i motivi della speranza o
i doveri dell’attività
morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di
nostro Signore” (Catechismo Romano,
10).
A tutti auguro un Anno
della Fede in compagnia con Maria, la prima
discepola del Signore
Gesù, il Salvatore del mondo.