....Nel Cristo Dio fatto uomo , troviamo il sostegno per la nostra debolezza e le risorse per raggiungere la perfezione. L'umanità di Cristo ci rimette in piedi , la sua condiscendenza ci prende per mano , la sua divinità ci fa giungere alla méta....


S.Agostino

Cerca nel blog

venerdì 19 ottobre 2012

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede (Venezia, 14 ottobre 2012)



Carissimi,
iniziamo l’Anno della Fede con l’ascolto di una parola difficile, la
pagina del Vangelo secondo Marco appena letto e che non ci chiede tanto
di essere poveri ma di considerare Gesù come l’unica ricchezza. Questo è
l’invito rivolto oggi alla Chiesa di Venezia.
L’Anno della Fede è dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi
come grazia, opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per
essere viva Chiesa del Signore.
Benedetto XVI - nella lettera apostolica Porta fidei che ha indetto
l’Anno - riprende l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al
discepolo Timoteo e lo esorta a “cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la
stessa costanza di quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)” (PF, 15).
E, poi, continua: “Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi,
perché nessuno diventi pigro nella fede: Essa è compagna di vita che
permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio
compie in noi” (PF, 15).
Questo invito è rivolto alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai
presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani,
ai sani, ai malati, a tutti: nessuno escluso. L’Anno della Fede è,
innanzitutto, un anno di conversione.
2
1. L’Anno della Fede: una grazia di conversione
Crescere nella fede vuol dire, semplicemente, appartenere a Dio e
testimoniare con la vita battesimale il Signore Gesù; per questo
necessitano occhi nuovi che sappiano guardare oltre il momento presente,
liberi nel coglierlo secondo la verità e la giustizia.
Ora, la domanda “venga il tuo Regno…” (Mt. 6,10) - che Gesù pone
all’inizio del Padre Nostro - non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi
a un presente che, talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita
a compiere qualcosa di concreto attraverso una vita di fede più attenta e
generosa con cui, rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente
comunicandogli il respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di
verità e di giustizia che sono intorno a noi.
In questo tempo di grazia - che è l’Anno della Fede - pastori e fedeli
sono chiamati a testimoniare personalmente e comunitariamente quanto
l’apostolo Paolo, al termine della vita, scrive a Timoteo: “So… in chi ho
posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel
giorno ciò che mi è stato affidato” (2Tm 1,12).
L’Anno della Fede - indetto da Benedetto XVI per celebrare i
cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i
vent’anni della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica - ci
chiama personalmente in causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando
all’esame di coscienza sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.
Benedetto XVI, all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui
promulga per la Chiesa l’Anno della Fede, così si esprime: “La ‘PORTA
DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che introduce la vita di comunione con Dio
e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’
possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene
annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma.
Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura
tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale
possiamo chiamare Dio con il nome di Padre…” (PF, 1).
3
Una revisione di vita che voglia essere vera conversione deve
qualificarsi, innanzitutto, in termini di critica “generosa”, ossia in termini
di autocritica. Il che significa: non puntare il dito contro nessuno.
Bisogna superare le recriminazioni, forse anche espressioni di animi
“storicamente” amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di
perdono generoso. Se è il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più
coraggio, con più fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di
riconciliazione. L’Anno della Fede deve cominciare qui.
La questione decisiva, o “caso serio” nel nostro personale cammino
verso una fede più matura, richiede di fare nostre sine glossa - ossia senza
interpretazioni di comodo - le pagine difficili del Vangelo, cominciando
proprio da quelle sul perdono e da quella di Marco che abbiamo appena
ascoltato.
Si tratta di far esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire
vere relazioni personali e comunitarie.
Un’idea di tolleranza non fondata sulla verità, alla fine, risulta
fuorviante e destinata a condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca
estraneità.
2. “Io credo”, “noi crediamo”: salvati con gli altri
Bisogna - secondo l’esortazione dell’apostolo Paolo - non esser pigri
nella fede ma, piuttosto, saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di
Dio. La fede non si esaurisce nell’atto personale del credere.
L’affermazione “io credo” porta sempre con sé anche la dimensione
comunitaria del credere con gli altri, vale a dire “noi crediamo”.
La forma ecclesiale del credere è parte strutturale della fede. Noi,
infatti, un giorno abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno,
qualcuno ci ha rinsaldati in essa. Emblematico è il caso di Saulo che, dopo
l’incontro diretto col Cristo risorto, viene mandato da Anania che lo
introdurrà nella vita di fede, nella vita della Chiesa (cfr. At 9,10-19).
4
Ciascuno di noi, in modo simile, condivide la fede con chi gliel’ha
annunciata e con quanti, insieme a lui, credono. Sì, la fede va condivisa
con gli altri, o meglio con la Chiesa, all’interno della comunione del
popolo di Dio che - come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II - va
intesa sempre come unione di fedeli e pastori.
Le parole della costituzione dogmatica Lumen gentium, in proposito,
sono chiare: “La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dallo
Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e
manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della
fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici»
mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per
quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e
sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce
fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la
parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13)…” (LG, 12).
Henri de Lubac, grande storico della teologia che ha preparato con il
suo pensiero il Concilio Ecumenico Vaticano II, circa la connotazione
ecclesiale della fede così s’esprime: “L’io che crede in Gesù Cristo non
può essere altro che la Chiesa di Gesù Cristo. La fede del cristiano è
dunque partecipazione alla fede della Chiesa. Ma una fede non è fede
“nella” Chiesa, è fede “della” Chiesa… L’anima cristiana è un’anima
ecclesiastica” (H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book,
Milano, 1979, 109).
Si dice letteralmente: “l’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” e
con ciò si riconoscono ed evidenziano gli elementi che, anche
storicamente, segnano la vita di fede della Sposa del Signore.
Un pensiero ricorrente nel magistero di Benedetto XVI ribadisce che
l’uomo si pone in relazione con Dio proprio attraverso il prossimo. Noi,
d’altra parte, comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti
della fede. Si dice comunemente: crediamo le stesse “cose”.
5
Due persone che non si conoscono, che non appartengono alla stessa
cultura e non parlano la stessa lingua ma credono in Gesù Cristo,
attraverso la loro fede, comunicano fra loro nelle cose più importanti.
Condividono, infatti, le risposte alle domande fondamentali dell’uomo:
Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia
fragilità? C’è qualcosa dopo questa vita? Che cos’è il bene? Che cos’è il
male?
Si manifesta, così, la dimensione comunitaria del credere e
Benedetto XVI lo evidenzia. L’uomo non è chiamato da solo alla salvezza
ma all’interno della comunità ecclesiale: “Con il suo amore, Gesù attira a
sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa
affidandole l’annuncio del vangelo, con un mandato che è sempre nuovo
(PF, 7).
Nella Chiesa ogni realtà è personale e, nello stesso tempo,
comunitaria. Nulla è individuale, a iniziare dalla fede che introduce l’uomo
nel mondo di Dio e nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro.
Quando Gesù comincia ad annunziare il Regno, raduna attorno a sé il
nuovo popolo di Dio, costituito inizialmente dai Dodici e dai discepoli.
Gesù, poi, congiunge il gesto sacramentale del pane spezzato e del vino
effuso - che fra poco ripeteremo - con la piena comunione ecclesiale. La
salvezza non si esprime, così, come la presenza individuale di Gesù nelle
coscienze dei singoli ma nel dono di Lui vivente e presente nella Chiesa, il
suo corpo. Sant’Agostino parla, a ragione, della Chiesa come del Christus
totus, il Cristo integrale (cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 85,1, in
PL, 36, 1081).
La dimensione comunitaria della fede non solo non schiaccia l’io
personale ma fa in maniera che il singolo credente non cada in una fede
facile ed illusoria che potremmo definire una fede fai da te, oggi molto di
moda.
La fede - nella sua dimensione comunitaria e relazionale - è, alla fine,
essenziale e permette al soggetto di raggiungere la pienezza umana.
6
La fede fai da te è comunque rischio ricorrente soprattutto per la
nostra epoca, segnata dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni
cosa all’interno di un soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella
vicenda storica di Gesù di Nazareth, finisce per imbattersi nel proprio io o,
più realisticamente, nella cultura dominante del determinato momento
storico.
In altri termini - stante il progetto di Dio rivelato nel Signore Gesù -
gli uomini non sono chiamati a una salvezza individuale ma donata a un
popolo costituito su un fondamento imprescindibile: Pietro e i Dodici,
coloro che il Signore si è scelto. La loro fede sarà, per sempre, il
fondamento della fede ecclesiale.
Il libro degli Atti degli Apostoli, fin dalle prime pagine, ne è la
diuturna testimonianza: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli
Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere. Un
senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli
apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune;
vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il
bisogno di ciascuno” (Atti, 2, 43-46).
Insieme a un tale quadro idilliaco, non vanno sottaciuti il peccato di
Anania e Saffira (cfr. At 5,1-11), il comportamento dell’incestuoso di
Corinto che vive con la moglie di suo padre (cfr. 1Cor 5, 1-5), le divisioni
della stessa comunità che provocano nell’apostolo Paolo espressioni che ci
sorprendono: “…verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto
non già delle parole di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che
sanno veramente fare. Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in
potenza. Che cosa volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore
e con dolcezza d’animo? ” (1Cor 4, 19-21).
I Dodici rimarranno, comunque, il fondamento: coloro che hanno
visto e ascoltato il Signore e hanno vissuto con Lui, quelli che l’hanno
seguito a Gerusalemme, l’hanno visto morire in croce ma, soprattutto,
l’hanno incontrato nuovamente vivo il terzo giorno, realmente risorto e,
concordi, testimoniano che è apparso a Simone (cfr. Lc 24,34).
7
La Chiesa è fondata sui Dodici, gli inviati del Risorto. E, dopo, i loro
successori che continuano l’opera apostolica, evangelizzando fino agli
estremi confini della terra. La nostra fede è sempre fede apostolica.
L’Anno delle Fede è, nello stesso tempo, itinerario personale del
discepolo ed ecclesiale dell’intera Chiesa. Costituisce un percorso che
conduce il credente verso un più vero e intenso incontro con la persona di
Gesù, la quale dà alla vita dell’uomo un nuovo orizzonte e la direzione
decisiva (cfr. PF, 1).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II - come insegna Benedetto XVI -
s’inserisce in un cammino ecclesiale di riforma nella continuità.
All’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen
gentium, troviamo queste parole: “Cristo è la luce delle genti, e questo
sacro concilio… ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul
volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad
ogni creatura” (LG n.1).
Cristo - col suo Vangelo, il suo “buon annuncio” - ci raggiunge
tramite la Chiesa e il suo ministero. Fondamentale è l’esperienza personale
di quei Dodici, a partire dagli incontri che ebbero col Signore risorto il
giorno successivo al sabato.
La Chiesa, negli uomini e donne che la compongono, è la prima
destinataria dell’annunzio cristiano: “…davvero il Signore è risorto!” (cfr.
Lc 24, 34). Poi, a sua volta, diventa il soggetto evangelizzante per
antonomasia a cui compete l’onore e l’onere dell’annuncio.
Benedetto XVI lo sottolinea quando, nella Lettera Porta fidei,
afferma: “La stessa professione di fede è un atto personale e insieme
comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… “Io
credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua
fede che ci insegna a dire “Io credo”, “Noi crediamo” (PF, 10).
E’ necessario, all’inizio dell’Anno della Fede, di nuovo ascoltare il
richiamo dell’apostolo Paolo che, nella lettera ai Romani, parla del
8
compito e della missione della Chiesa nei confronti dell’annuncio del
vangelo cristiano: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno
creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare?
Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo
annunceranno, se non sono stati invitati? Come sta scritto: ‘Quanto sono
belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!’ ” (Rm 10, 14-
15). Le nostre comunità devono essere comunità mandate ad annunciare.
E’, quindi, attraverso la Chiesa “mandata” che noi incontriamo Dio e
possiamo credere in Lui. Ma nonostante ciò - come detto - l’atto di fede
rimane gesto libero della persona, seppur scandito nella comunità
ecclesiale e attraverso di essa, mai al di fuori o senza essa. Certo, è un
dono, ma è un dono che Dio non fa mancare a nessuno: altrimenti non
sarebbe più Dio e ragionerebbe con i criteri degli uomini… Non bisogna
essere filosofi per capire che se Dio c’è e la fede salva, il dono della fede
Dio non lo fa mancare a nessuno.
Secondo tale logica, immaginare un incontro con Dio escludendo il
prossimo equivarrebbe ad una radicale incomprensione della rivelazione
cristiana per la quale gli altri - per la stessa volontà di Gesù - sono segni
dell’incontro con l’Altro.
Ed è Gesù che ce lo ricorda: “Se due di voi sulla terra si metteranno
d’accordo per chiedere qualcosa, il Padre mio che è nei cieli, gliela
concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in
mezzo a loro” (Mt 18, 19-20).
Dato che la fede di cui parla Gesù è sempre intimamente legata
all’amore, allora, nella vita di fede, assume particolare rilevanza l’apertura
del cuore. Fede e carità si esigono a vicenda; per questo l’Anno della Fede
deve essere occasione per crescere nella testimonianza reciproca della
carità.
Una vita di fede priva delle opere - e per il cristiano la prima opera è
la carità - costituisce, di per sé, un’obiezione fondamentale alla fede. Si
tratterebbe di una contraddizione in termini: non è vera, non è genuina,
9
non è salvifica una fede che sia incapace d’amare. Si può dire, piuttosto,
che è una fede che ha smarrito se stessa (cfr. PF, 14).
In tale prospettiva comprendiamo quanto sia decisivo ciò che
Giovanni scrive nella sua prima lettera: “Se uno dice: “io amo Dio” e odia
suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che
vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che
abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 20-21).
Così la fede - soprattutto quando l’ascolto si fa preghiera - conduce a
vivere la comunione più intensa con Dio, una comunione che si esprime in
una fraternità più grande che sorprende e riempie di stupore quanti sono
coinvolti. Il culto, ricordiamolo bene, non risulta gradito a Dio se non
esprime un cuore riconciliato.
Il Vangelo di Matteo ci avverte in proposito: “Se dunque tu presenti
la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa
contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti
col tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23).
La fede, poi, si esprime secondo modalità e gesti pubblicamente
rilevabili: la domenica e le festività proprie della religiosità popolare, gli
usi e i costumi di determinate popolazioni e territori ma soprattutto - lo si
ribadisce - la domenica, giorno del Signore.
Il rischio, soprattutto in epoche che si caratterizzano per la veloce
transizione - la cosiddetta società liquida -, è confondere il patrimonio, che
esprime la grande Tradizione, con un passato che, invece, non ha più la
forza d’incidere sul presente dei singoli e delle comunità.
Allora diventa oltremodo facile passare ad una fede che, nei fatti, non
risponde più a una scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e
agire ma, piuttosto, a un freddo conformismo a cui ci si consegna e
aggrappa e del quale si ha bisogno per coprire le proprie insicurezze.
Un altro pericolo, sul quale siamo chiamati a vigilare, consiste nel
rischio di confondere l’elemento religioso dell’atto di fede con quello
10
sociale/sociologico che può caratterizzare un particolare territorio o una
determinata popolazione.
Anche gli antagonismi e le guerre di religione non sono contrasti
intrinsecamente connessi ad una fede vera e autentica ma, piuttosto,
appartengono alla vita, alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di
una società. Lo ribadiamo: non alla genuina vita di fede.
3. I contenuti della fede
L’Anno della Fede, oltre che ricordare il cinquantesimo anniversario
dalla solenne inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11
ottobre 1962), intende anche richiamare, a vent’anni dalla sua
promulgazione (11 ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Chiedo a tutti, soprattutto ai parroci, la lettura meditata delle quattro
Costituzioni conciliari e del Catechismo della Chiesa Cattolica: siano i
cammino che ci accompagnano lungo l’Anno della Fede sia a livello
personale sia comunitario. I due livelli - personale e comunitario - sono,
infatti, necessari per una vera comprensione dei grandi testi in cui si trova
condensata la saggezza dell’ultimo Concilio.
E’ vivo desiderio del Santo Padre Benedetto XVI - come lo fu già del
suo predecessore, il beato Giovanni Paolo II - fare in modo che il
Catechismo, in cui è trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II,
trovi una più grande accoglienza presso le nostre comunità.
E proprio Giovanni Paolo II vent’anni fa, nella Costituzione
Apostolica Fidei depositum, ricordava come tale idea si manifestò in
occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata
nel 1985, a vent’anni dalla conclusione del Concilio; si trattò, quindi, di
un’esplicita richiesta proveniente dai padri sinodali.
Giovanni Paolo II affermava così d’aver fatto suo il desiderio
espresso dal Sinodo dando un’autorevolezza più grande a quel voto. In tal
11
modo conferiva a questo desiderio l’avvallo del successore dell’Apostolo
Pietro (cfr. Fidei Depositum, Introduzione).
E’ importante che nell’Anno della Fede, nella nostra Chiesa
particolare - vescovo, parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici -
trovino cordiale accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il
Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarà un gesto concreto di recezione e
di amore verso il Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno
sia assunto da tutti e, in modo particolare, dai parroci.
Ricordo, pure, che la piena recezione del Vaticano II chiede di
promuovere nei nostri cammini formativi, personali e comunitari,
l’apertura al mondo. Da guardare con simpatia, con amicizia e con quel
giudizio di critica che non è condanna ma che non rinuncia a dire la verità
di Gesù Cristo.
Ancora il beato Giovanni Paolo II - sempre nella Costituzione Fidei
Depositum - si è servito di espressioni da cui traspare l’autorevolezza delle
sue parole: “Il Catechismo della Chiesa cattolica… di cui oggi ordino la
pubblicazione in virtù dell’autorità apostolica, è un’esposizione della fede
della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra
Scrittura, dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa” (Fidei
Depositum, parte IV).
Fin da questi primi mesi la lettura del Concilio Vaticano II e del
Catechismo della Chiesa Cattolica entri abitualmente nella pastorale
ordinaria delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle
associazioni e aggregazioni laicali.
Ritengo che un proficuo approccio al testo del Catechismo sia offerto
dal Compendio dello stesso Catechismo che, in modo agile e organico,
introduce e presenta quanto il testo dice circa la professione di fede, i
sacramenti, la vita cristiana e la preghiera della Chiesa.
Tutto ciò ci accompagni nel nostro cammino di una fede che vuole
amare e di un amore che vuole essere confermato nella fede di Gesù
Cristo.
12
Mi ha colpito, infine, il passo con cui si chiude la prefazione del
Catechismo della Chiesa Cattolica che assume - e fa suo - il principio
pastorale del Catechismo Romano, espressione del Concilio di Trento,
promulgato da papa San Pio V. Tale passo, che è bene conoscere, per molti
costituirà - penso - una felice sorpresa: “Tutta la sostanza della dottrina e
dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine.
Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o
i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di
nostro Signore” (Catechismo Romano, 10).
A tutti auguro un Anno della Fede in compagnia con Maria, la prima
discepola del Signore Gesù, il Salvatore del mondo.