VIRI PROBATI": UNA SOLUZIONE?
Non poche volte nella storia bimillenaria della Chiesa
taluni hanno portato alla ribalta la questione del celibato con argomentazioni
pro e contro, in circostanze certamente diverse ma sempre in connessione con
altri fattori, esterni o anche interni alla comunità ecclesiale. Vivendo la
Chiesa e con essa i suoi ministri ordinati, vescovi, presbiteri e diaconi, nel
mondo con l'arduo compito di permearlo e animarlo, risentono necessariamente
dei fenomeni che lo agitano.
Da alcuni decenni si avvertono più sensibilmente: le
trasformazioni rapide e soprattutto la svolta culturale, antropologica e
tecnica con le sue conseguenze di omogeneizzazione della cultura e di un
umanesimo planetario; la concentrazione industriale e il solco approfondito tra
paesi poveri e paesi ricchi; il fenomeno migratorio su base internazionale, che
dà vita ad un quarto mondo carico di problemi e bisognoso di non comune
assistenza umana e spirituale; il decadimento del senso morale; il
deterioramento del costume pubblico e privato; la perdita o l'affievolimento
dei valori religiosi o del senso del sacro; la diffusione della
secolarizzazione, della laicizzazione e dell'indifferentismo religioso;
l'assenza di Dio nel pensiero di quanti si impegnano a costruire la città
terrestre.
Non sono poi mancate incertezze di carattere teologico
circa l'identità, lo stile di vita e l'attività pastorale, che già prima del
Concilio Vaticano II avevano fatto ripiegare alcuni sacerdoti su se stessi e
mettere in discussione la validità del celibato e auspicare una revisione del
suo obbligo.
1.
Lottare per una "Chiesa libera, casta e universale"
Giovanni XXIII nell'Allocuzione rivolta al Sinodo
romano il 2 gennaio 1960, alludendo alle critiche mosse al celibato, ribadì la
posizione della Chiesa: «Quello che ci affligge particolarmente è il vedere ...
alcuni [sacerdoti] lasciarsi andare a delle illusioni e immaginare che la
Chiesa cattolica abbia intenzione o ritenga opportuno rinunciare alla legge del
celibato ecclesiastico che è stato nel corso dei secoli e resta sempre
l'ornamento splendente e radioso del sacerdozio ... Costituisce infatti un
segno della vittoria di Cristo il lottare perché essa [la Chiesa] sia libera,
casta e universale»[1][1].
Indetto il Concilio, da qualche Vescovo fu avanzata la
proposta che il celibato fosse reso opzionale in tutta la Chiesa e si trattasse
della possibilità di promuovere al sacerdozio uomini sposati di età avanzata,
dotati di dottrina, pietà e di esemplare vita coniugale[2][2].
Questo ed altri pochi voti analoghi rappresentano compromessi e cedimenti che
sino ad oggi, in forma diversa, sono stati richiamati in base a considerazioni
di funzionalità pragmatica e di condizionamenti umani. La stragrande
maggioranza dell'episcopato auspicava la conservazione del celibato nella sua
interezza e chiedeva che ne fossero approfondite le basi teologiche, specie
quelle bibliche e patristiche, mettendo in evidenza il rapporto vitale del
sacerdote, in forza dell'ordinazione sacramentale, con Cristo e la sua opera
salvifica, col popolo fedele, della cui santificazione è incaricato, e con
tutti gli uomini per procurarne la salvezza. In questa luce andava visto il
celibato, e non tanto come una legge basata su considerazioni storiche e
disciplinari.
Dato il clamore suscitato dalla stampa per la notizia
sparsasi che tre Vescovi, preoccupati per la scarsità del clero celibatario,
avrebbero presentato degli interventi sul matrimonio dei sacerdoti nella
discussione per il Decreto sul ministero e la vita sacerdotale, il 10 ottobre
1965 Paolo VI comunicò al Cardinale Eugenio Tisserant, Presidente del Consiglio
di Presidenza del Concilio, che non riteneva opportuno un dibattito pubblico su
questo argomento così grave. Mentre egli stesso si sarebbe adoperato perché il
celibato fosse sempre meglio osservato e reso convincente agli stessi
sacerdoti, i Padri erano liberi di trasmettere per iscritto le loro
osservazioni in proposito alla Presidenza[3][3].
Anche se il Concilio ammette la possibilità del
conferimento del diaconato «col consenso del Romano Pontefice ... a uomini di
matura età anche viventi in matrimonio»[4][4], prescrive che
gli aspiranti al sacerdozio«che secondo le leggi sante e salde del proprio rito
seguono la veneranda tradizione del celibato sacerdotale, siano diligentemente
educati a questo stato nel quale, rinunziando alla vita coniugale per il regno
dei cieli (cf. Mt 19,12) aderiscono a Dio con un amore indiviso, rispondente
intimamente alla nuova legge, danno testimonianza della futura risurrezione
(cf. Lc 20,36) e ricevono un aiuto grandissimo per l'esercizio di quella
perfetta carità che li renderà capaci nel ministero di farsi tutto a tutti»[5][5].
Nel Decreto sul ministero e la vita sacerdotale (n.
16) il Concilio, oltre a precisare che la continenza per il regno dei cieli,
raccomandata da Cristo Signore «è sempre stata considerata dalla Chiesa come
particolarmente confacente alla vita sacerdotale», aggiunge che «certamente
essa non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente
dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese orientali,
nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i Vescovi scelgono con l'aiuto
della grazia di osservare il celibato, vi sono anche eccellenti presbiteri
coniugati».
Intanto, dopo aver esposto le motivazioni
cristologiche, ecclesiologiche, escatologiche e pastorali, il Concilio
sottolinea che per motivi fondati sul mistero di Cristo e della sua missione,
il celibato «dapprima raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto
come una legge della Chiesa latina a tutti coloro i quali si presentano agli
Ordini sacri». Perciò «torna ad approvare e confermare tale legislazione per
quanto riguarda coloro che sono destinati al presbiterato» ed «esorta i
presbiteri, i quali hanno liberamente abbracciato il sacro celibato seguendo
l'esempio di Cristo e confidando nella grazia di Dio, ad aderirvi con decisione
e con tutta l'anima e a perseverare fedelmente in questo stato, sapendo
apprezzare questo dono meraviglioso che il Padre ha concesso e che il Signore
ha così esplicitamente esaltato (cf. Mt 19,11) e avendo anche presenti i grandi
misteri che in esso sono rappresentati e realizzati».
In questo documento conciliare, pur essendo esposte
con chiarezza le motivazioni teologiche del celibato, si accenna appena al dato
storico. Per favorire i rapporti ecumenici con le Chiese orientali[6][6] in riferimento a
1 Tm 3,2-5 e Tt 1,6, si riconosce l'esistenza di un clero sposato sin dai tempi
apostolici, senza pronunciarsi sul fatto che, dopo l'ordinazione, fosse sempre
stata richiesta la continenza agli uomini sposati e senza accennare alla
continenza temporanea esigita dalle Chiese orientali ai sacerdoti sposati nei
giorni della celebrazione eucaristica.
Approvando e confermando il celibato in senso stretto
per i ministri ordinati vescovi, presbiteri e diaconi aspiranti al presbiterato
nella Chiesa latina, il Concilio accantona la questione, sollevata dai testi
dei primi tre secoli e di quelli posteriori, sull'origine apostolica della
continenza richiesta agli sposati dopo l'ordinazione. Col dichiarare di non
intendere «assolutamente modificare la disciplina diversa legittimamente in
vigore nelle Chiese orientali» usa l'avverbio legittime per riferirsi
genericamente alla disciplina di quelle Chiese, per cui non si può certo da
esso dedurre un riconoscimento dell'anteriorità della loro disciplina rispetto
a quella della Chiesa latina.
Va tenuto ben presente che il Concilio non disponeva
ancora della conoscenza, scientificamente sicura, sulla vera tradizione del
celibato nella Chiesa sia occidentale che orientale, né dell'approfondimento
del sacerdozio cattolico e del celibato ad esso collegato, che sarà espresso
nell'Esortazione Pastores dato vobis[7][7] di Giovanni
Paolo II e nel Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri[8][8] della
Congregazione per il Clero.
2.
Sacerdotalis caelibatus
Paolo VI, mantenendo la promessa fatta ai Padri
conciliari, nell'Enciclica Sacerdotalis caelibatus (24 giugno 1967), confutate
le obiezioni sollevate contro il celibato obbligatorio, ne espone ampiamente le
ragioni teologiche, spirituali, pastorali che lo esigono ancor oggi. Pur dando
alcune indicazioni storiche, esorta piuttosto alla ricerca. In effetti, una
indagine storica e più critica, come si vedrà più avanti, avrebbe fatto ben
risaltare il profondo accordo del celibato, inteso in senso stretto, con la
teologia esposta nell'Enciclica: «Il sacerdozio cristiano, che è nuovo, può
essere compreso soltanto alla luce della novità di Cristo, Pontefice Sommo ed
Eterno Sacerdote, il quale ha istituito il sacerdozio ministeriale come reale
partecipazione al suo unico sacerdozio»[9][9].
Ora il Cristo, Mediatore e Sacerdote Eterno, «rimase
per tutta la vita nello stato di verginità, che significa la sua totale
dedizione al servizio di Dio e degli uomini». Il vincolo fra sacerdozio e
verginità in Cristo «si riflette in quelli che hanno la sorte di partecipare
alla dignità e alla missione del Mediatore e Sacerdote Eterno, e tale
partecipazione sarà tanto più perfetta, quanto più il sacro ministero sarà
libero da vincoli di carne e di sangue»[10][10].
Paolo VI non si pronuncia sulla legislazione particolare delle Chiese orientali
né la fa risalire ai tempi apostolici.
Intanto le polemiche circa il celibato non cessavano,
per cui Paolo VI per mezzo del Segretario di Stato, Cardinale Amleto Cicognani,
il 2 febbraio 1969 invitava le Conferenze Episcopali a non lasciarsi
impressionare né suggestionare da tali correnti contestatrici e poneva
responsabili interrogativi circa le conseguenze capovolgitrici che avrebbe la
dissociazione tra il sacerdozio e il celibato nella vita del sacerdote stesso e
dell'intera comunità ecclesiale, nella vita spirituale e in una pastorale che
risponda realmente alle esigenze del mondo moderno. Enunciava infine un
principio basilare da tenere sempre presente:
Essendo il ministero del sacerdote centrato sui valori
religiosi da promuovere nella vita degli uomini, sul regno di Dio da costruire
fin da quaggiù, è più che mai necessario, in un'epoca in cui l'umanità si
mostra meno attenta alle realtà divine, offrirle questa testimonianza di
fedeltà e d'amore, che non può certo ridursi al rispetto di una legge; la
testimonianza del sacerdote che, per essere pastore con il Cristo e nel suo
nome, per essere senza riserve al servizio dei fratelli, si offre interamente a
Colui che lo ha scelto, a Colui che può e deve riempire la sua vita[11][11].
Alfa distanza esatta di un anno, addolorato per
dichiarazioni fatte circa la riammissione all'esercizio del ministero di
sacerdoti che si erano sposati, il Pontefice sentiva il dovere di riaffermare
con chiarezza la norma del sacro celibato. Nello stesso tempo assicurava che
non si dimenticava della questione postagli da Vescovi zelanti, attaccati ai
valori eminenti del celibato nella Chiesa latina e ansiosi per le necessità del
tutto particolari del loro ministero apostolico: «In una situazione di estrema
carenza di sacerdoti ... e limitatamente alle regioni che si trovino in simile
situazione: non si potrebbe forse considerare l'eventualità di ordinare per il
sacro ministero uomini di età già avanzata, che abbiano dato nel loro ambiente
testimonianza di una vita familiare e professionale esemplare?»[12][12].
Poi però il Pontefice aggiungeva «Non possiamo
dissimulare che una tale eventualità solleva da parte Nostra gravi riserve. Non
sarebbe, infatti, tra l'altro, un'illusione molto pericolosa il credere che un
tale cambiamento della disciplina tradizionale potrebbe, nella pratica,
limitarsi a casi locali di vera ed estrema necessità? Non sarebbe poi una
tentazione, per altri, di cercarvi una risposta apparentemente più facile
all'insufficienza attuale di vocazioni? In ogni caso le conseguenze sarebbero
così gravi e porrebbero delle questioni talmente nuove per la vita della
Chiesa, che dovrebbero, semmai, essere previamente e attentamente esaminate,
insieme con Noi, dai Nostri Fratelli nell'Episcopato, tenendo conto, davanti a
Dio del bene della Chiesa universale, che non si potrebbe disgiungere da quello
delle Chiese locali».
3.
Il celibato al Sinodo dei Vescovi del 1971
La risposta delle Conferenze Episcopali fu espressa
nel Sinodo dei Vescovi tenutasi dal 30 settembre al 6 novembre 1971.
Unanimemente si ammise il legame fra sacerdozio e celibato come di grande convenienza
per ragioni non di purezza rituale o di sola obbedienza legale, ma per motivi
cristologici, ecclesiologici, escatologici, pastorali e pratici. Fu anche quasi
unanime la determinazione di mantenere l'obbligo del celibato, «la cui profonda
motivazione - affermava Mons. Paolo Giuseppe Schmitt, Vescovo di Metz, nella
relazione del Circolo francese - risiede nella sequela Christi, compresa
secondo il radicalismo del Vangelo. Gesù ha chiesto ai suoi apostoli di
lasciare tutto per la missione. La vita apostolica implica l'esigenza di
sacrificare tutto per il regno. Lo Spirito Santo ha fatto prendere
progressivamente alla Chiesa la coscienza del legame esistenziale tra il
discepolato, stato al quale il prete deve aderire, e il celibato sacerdotale»[13][13].
L'eventuale ammissione di uomini già sposati, forniti
di doti particolari di onestà familiare e attività apostolica e perciò detti
viri probati, veniva proposta al Sinodo soprattutto per ovviare alla carenza di
clero, sotto varie condizioni, solo da alcuni membri di qualche Conferenza
Episcopale. Una esigua minoranza di qualche episcopato ammetteva tale proposta
unicamente per le regioni nelle quali fosse strettamente necessario. Molti
furono contrari all'ammissione di viri probati al sacerdozio, perché costituirebbe
un primo passo per la soppressione del celibato, in quanto una soluzione locale
diventerebbe ben presto universale. Mentre non si risolverebbe il problema
delle vocazioni, come consta dalle esperienze delle Chiese ortodosse e delle
Comunità ecclesiali protestanti che hanno un clero sposato. Creerebbe poi due
categorie di sacerdoti: quella di prima classe, cioè i sacerdoti celibi non
intralciati nel loro ministero e un'altra di seconda classe, che per la
famiglia porrebbe seri problemi anche sociali ed economici (mezzi per gli studi
e la sistemazione di figli, eventuali vedove o orfani, stabilizzazione in
parrocchie che diventano quasi vitalizie e persino ereditarie).
Mons. Aloisio Lorscheider, allora Vescovo di Santo
Angelo, dimostrò non fondati i tre motivi pastorali per inculcare la necessità
di ordinare uomini sposati:
- diritto alla celebrazione dell'Eucarestia: non è
detto quante volte; la Chiesa obbliga, se possibile, solo una volta all'anno;
essendo l'Eucaristia apice dell'evangelizzazione, non si dovrebbe ammettere ad
essa una comunità insufficientemente evangelizzata;
- remissione dei peccati: in mancanza di sacerdoti la
si può conseguire con l'atto di contrizione;
- apostolato specializzato: possono provvedervi
catechisti, diaconi, laici ben preparati[14][14].
La tradizione orientale, che ammette all'ordinazione
uomini già sposati ma non permette di contrarre matrimonio agli ordinati da
celibi né ai vedovi di risposarsi, spesso richiamata nel dibattito, ha spinto i
Padri a non affermare un nesso necessario tra sacerdozio e celibato. Però i
Padri orientali hanno incoraggiato i confratelli latini a mantenere intatto
l'obbligo del celibato.
I Padri delle Chiese dell'Africa e dell'Asia hanno
sottolineato più volte l'apprezzamento dei rispettivi popoli per il celibato,
confutando i gruppi di pressione che spesso affermano che l'inculturazione del
Vangelo sarebbe resa difficile dall'osservanza del celibato in ambienti che
ritengono grandi valori il matrimonio, la famiglia e la fecondità.
La proposizione : «La legge del celibato sacerdotale
vigente nella Chiesa latina deve essere integralmente conservata» riscosse 168
placet; 10 non placet; 21 placet iuxta modum; 3 astensioni[15][15].
Non avendo trovato appoggio la proposta di rimettere
alle Conferenze Episcopali la decisione di promuovere uomini sposati
all'ordinazione presbiterale, furono votate due formule alternative.
- La
prima: «Salvo sempre il diritto del Sommo Pontefice, l'ordinazione presbiterale
di uomini sposati non è ammessa neppure in casi particolari», ebbe 107 placet.
- La
seconda: «Spetta soltanto al Sommo Pontefice, in casi particolari, concedere
per necessità pastorali, considerato il bene della Chiesa universale,
l'ordinazione presbiterale di uomini sposati, di età matura e di comprovata probità»,
riscosse 87 placet.
Vi furono due astensioni e due voti nulli[16][16].
Si chiudeva così la discussione ampia e responsabile
da parte dei rappresentanti dell'episcopato con una votazione inequivocabile.
Con il Rescritto del 30 novembre il Cardinale Jean
Villot, Segretario di Stato, rese noto che il Santo Padre confermava «in modo
particolare che, nella Chiesa latina, si continui ad osservare integralmente,
col divino aiuto, la presente disciplina del celibato sacerdotale»[17][17].
In tale circostanza Roger Schütz, priore di Taizé,
scriveva a Paolo VI:
il celibato,
follia del Vangelo per gli uomini e annuncio del Regno che viene, animerà la
Chiesa di Dio nella sua vocazione unica ad essere il sale della terra. Il
celibato non è certo una via di facilità; per suo mezzo degli uomini donano a
Cristo tutta la loro vita senza riservare una parte per il futuro; per suo
mezzo ricevono compensi centuplicati, ma con persecuzioni vissute in una lotta
interiore per coloro che Dio ha affidato ad essi. Lungi dal contraddire la
santità del matrimonio cristiano, il celibato stimolerà dei cristiani a
scoprire ciò che è specifico nella vocazione del laicato, ossia un sacerdozio
regale deposto in ogni cristiano e che consiste nel vivere di Cristo per gli
uomini. In tal modo questi cristiani porteranno più esplicitamente, in essi,
una parte del ministero comune della Chiesa[18][18].
Queste parole di un luterano riformato sono indice
della risonanza positiva dei paragrafi del documento sul Sacerdozio
ministeriale dedicati al celibato nel suo fondamento, nella convergenza dei
motivi che rendono necessaria la sua conservazione nella Chiesa latina e nelle
condizioni che lo favoriscono.
4. Il celibato al Sinodo del 1990
A distanza di diciannove anni nel Sinodo (28 settembre
- 27 ottobre 1990), dedicato alla "formazione dei sacerdoti nelle
circostanze attuali", cioè di fronte alle sfide della fine del secondo
millennio, si è registrato qualche ulteriore approfondimento del celibato nei
suoi aspetti storici, teologici, pedagogici, ecc..
Nella relazione del Cardinale Camillo Ruini, al
Circolo minore di lingua italiana, si legge:
Poiché nel
Sinodo si sono manifestate e sono giunte all'opinione pubblica alcune voci
diverse a proposito di viri probati, il Circolo ritiene necessario che il
Sinodo, fin dal messaggio o testo conclusivo dei lavori, riaffermi in termini
chiarissimi, anche se brevi, il pieno mantenimento del celibato sacerdotale
(offrendone le motivazioni): ogni incertezza in proposito sarebbe infatti
dannosa per i sacerdoti e il popolo di Dio, Quest'affermazione va fatta però in
termini tali da non offendere in alcun modo la stima per il clero uxorato delle
Chiese cattoliche di rito orientale[19][19].
Questa richiesta trovò piena attuazione nella
Propostilo 11, che il Santo Padre ha riportato letteralmente nel n. 29 della
sua Esortazione Pastores dabo vobis:
Ferma restante la disciplina delle Chiese orientali,
il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un
carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio
per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo
Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa latina e alcuni riti
orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli
uomini che hanno ricevuto da Dio il dono della castità celibe (senza
pregiudizio della tradizione di alcune Chiese Orientali e dei casi particolari
di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo, per il quale si
dà eccezione nell'Enciclica di Paolo VI n. 42). Il Sinodo non vuole lasciare
nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di
mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i
candidati all'ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che
il celibato sia presentato e spiegato nella sua ricchezza biblica, teologica e
spirituale, come dono prezioso dato da Dio alla sua Chiesa e come segno del
Regno che non è di questo mondo, nonché dell'amore indiviso del sacerdote verso
Dio e il Popolo di Dio, così che il celibato sia visto come arricchimento
positivo del sacerdozio.
5.
Ancora proposte per il conferimento del celibato a "viri
probati"
I limiti di spazio non mi permettono di entrare
nell'approfondimento di questa rinnovata e inequivocabile dichiarazione, la cui
genesi appare chiaramente dall' escursus sintetico da me fatto sul problema dei
viri probati sin dall'indizione del Concilio Vaticano II. Del resto, già
innumerevoli studi hanno toccato i vari aspetti del sacerdozio nelle sue
dimensioni costitutive e nei suoi molteplici aspetti e connessioni.
Purtroppo ancor oggi non mancano opuscoli e fogli
volanti che, partendo da principi funzionalistici, democraticistici,
sociologistici e secolaristici, attaccano esplicitamente il celibato, ma la
mira di alcuni è forse la realtà stessa del sacerdozio, ridotto a semplice
funzione revocabile in qualsiasi momento da parte dell'individuo o
dell'autorità ecclesiale.
In questi ultimi trent'anni i mezzi della comunicazione
sociale, non si sa se con intenti di promozione evangelica, hanno attirato
l'attenzione sulla crisi numerica e spirituale dei sacerdoti. Si sottolinea con
enfasi che, mentre aumentano le parrocchie sprovviste di sacerdoti e altri
settori di apostolato sono trascurati e insufficientemente curati per carenza
di ministri ordinati, si riduce in maniera impressionante il numero dei
candidati al sacerdozio.
La guida pastorale nei paesi tradizionalmente
cattolici e ancor più negli sterminati campi di evangelizzazione missionaria,
ne risentirebbe fortemente e senza spiragli di miglioramento per il futuro. Di
qui il ritorno, a ritmo più o meno serrato, della questione dei viri probati da
ammettere al sacerdozio, pur essendo già vincolati al matrimonio.
Senza difficoltà si riconosce il carattere evangelico
del carisma del celibato e il suo valore di connessione pastorale col
sacerdozio per il servizio al mondo, come segno di totale dedizione a Dio e di
disponibilità agli uomini, per cui occorrerebbe svilupparlo e approfondirlo
affinché il popolo di Dio ne comprenda tutta la portata.
Però si fa subito presente che non è riconoscibile
chiaramente la spontaneità dell'accettazione del celibato, imposto al sacerdote
con legge positiva. La sua scelta libera dopo matura riflessione renderebbe
invece maggiormente disponibili all'annuncio del Vangelo. L'imposizione del
celibato risentirebbe di spiritualismo disincarnato o di disprezzo della
sessualità o di misoginismo.
Da una parte poi, prendendo le mosse da casi difficili
e dolorosi, li si generalizza; dall'altra si contrappone alla prassi
celibataria obbligatoria della Chiesa Latina la prassi di alcune Chiese
Orientali cattoliche che ammettono il sacerdozio uxorato. La causa di alcune
defezioni nelle file del clero e la chiusura a eventuali candidati al
sacerdozio sarebbe ancora il celibato, che priverebbe la Chiesa Latina di
elementi preziosi per la cura pastorale, specie nel settore familiare,
pedagogico, professionale e morale, in cui sacerdoti sposati porterebbero il
contributo della loro specifica esperienza.
6.
Crisi vocazionale
Ed ora solo degli accenni di risposta, a cominciare
dalle ultime affermazioni, di cui non reggono le premesse e tanto meno le
conseguenze che se ne traggono.
È innegabile che in alcuni paesi cattolici, specie
dell'Europa occidentale e dell'America del nord, si è verificato un sensibile
calo numerico dei sacerdoti. Però il celibato è stato soltanto una delle cause
che hanno determinato alcuni di loro ad abbandonare il ministero. Va tenuto
presente che la prassi di ritirarsi da incarichi di diretta responsabilità in
età avanzata non esime il sacerdote, che non è equiparabile ad un funzionario,
dall'esercitare ancora il ministero nei limiti consentitigli dalle sue forze.
A casi difficili o dolorosi fa poi riscontro «la
testimonianza offerta dalla stragrande maggioranza dei sacerdoti che vivono il
proprio celibato con libertà interiore, con ricche motivazioni evangeliche, con
fecondità spirituale, in un orizzonte di fedeltà convinta e gioiosa alla
propria vocazione e missione»[20][20].
Uno studio statistico effettuato nel 1985 con tremila
sacerdoti dimostrò che «l'80% di quelli che avevano abbandonato il ministero
dopo il Concilio tra i 30 e i 70 anni di età, attribuivano la loro decisione al
vuoto e alla solitudine del cuore, piuttosto che alle esigenze sessuali»[21][21].
Fino a pochi anni fa in alcune zone si ebbero poche
ordinazioni, per cui ci si preoccupava di non avere sacerdoti giovani
sufficienti per farli subentrare a quanti morivano, si ammalavano, avevano
lasciato totalmente il ministero, o si erano ritirati da quello
"attivo". Però anche ivi si è già verificato un lento, ma costante
incremento di ordinazioni e di vocazioni.
Inoltre, in Africa, Asia, America centrale e
meridionale, l'aumento di ordinazioni, prima mantenutosi costante, si è ora
notevolmente elevato. Lo stesso si verifica nell'Europa orientale. L'abbondanza
di vocazioni in alcune zone e la carenza in altre non dipende certamente dal
celibato, vigente in tutte queste nazioni, ma da altri fattori, che hanno
incidenze diverse in aree differenziate. Anche se occorrerà ancora qualche
tempo per potere verificare il ritmo della crescita delle vocazioni, va
sottolineato che il numero volutamente limitato di figli porta i genitori a
distoglierli dall'aspirare al sacerdozio. Del resto la crisi vocazionale si
verifica soprattutto tra gli anglicani, in cui non vige il celibato neppure per
i vescovi, e fra gli stessi pastori protestanti in genere, che pure sono liberi
di formarsi una famiglia.
Una constatazione assume un'evidenza palmare: anche in
Europa e nel Nord America le vocazioni fioriscono dove si cura una teologia
corretta ed aggiornata, una profonda vita ascetica, una disciplina motivata e
lo spirito apostolico. Basta a tal proposito osservare senza pregiudizi alcuni
seminari e istituti di vita consacrata.
Per rispondere alle sfide ed esigenze del mondo
contemporaneo che ha bisogno di una nuova evangelizzazione, anziché lasciarsi
assimilare dall'ambiente con compromessi e cedimenti, la comunità ecclesiale e
i suoi ministri devono, sotto l'impulso dello Spirito, seguire Cristo con
radicalità e generosità incondizionate. Gli stessi giovani, anche
psicologicamente, sono attirati non da ciò che è facile e blandisce le loro
passioni, ma da quanto li aiuta a vivere la grandezza e la dignità del proprio
essere. Solo nella convinzione che il Signore non lascerà mai il suo popolo
senza pastori che lo radunino e guidino (cf. Ger 3,15), essi non saranno tutti
sordi alla voce di Colui che li invita ad abbandonare ogni cosa per essere,
sempre e comunque, tutti di Dio e, quindi, degli uomini.
Comprenderanno allora che proprio per questo Cristo,
consacrato dal Padre Sommo ed Eterno Sacerdote, assumendo una natura umana
perfetta ed elevando il matrimonio a dignità di sacramento, scelse,
contrariamente al suo contesto socio-culturale, lo stato di perfetta verginità.
Congiunse così armoniosamente ed intimamente tale condizione con la missione
affidatagli di mediatore fra cielo e terra, offrì al Padre il suo amore totale
ed esclusivo fino all'immolazione e si dedicò, senza limitazione alcuna, al
compimento dell'opera redentrice.
Colui che, affascinato da Cristo, ascolta la sua
chiamata, si pone alla sua sequela e si lascia configurare a Lui come Capo e
Sposo della Chiesa, con la partecipazione del suo sacerdozio, accetta
liberamente i connotati essenziali ed esistenziali di questo dono per agire in
persona Christi.
7.
Conformazione al Cristo Sposo
L'identità del sacerdote non sta in un semplice
autoriferimento a Cristo, ma in un rapporto vivo con Colui che lo consacra e
invia come Egli stesso fu consacrato e inviato dal Padre (Gv 10,36) con la
Chiesa-popolo di Dio, nella quale esercita il suo ministero, col mondo a cui
deve portare il messaggio della salvezza.
Al n. 22 dell'Esortazione Pastores dabo vobis si mette
in risalto nel Signore la duplice immagine del Pastore-Sposo, «il quale ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola
per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi
comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o
alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,29). Il rapporto tra Cristo e
la sua Chiesa assume il grado più elevato di intimità, mutua appartenenza ed
esclusività sponsale. Infatti «la Chiesa è sì il corpo di Cristo, nel quale è
presente e operante Cristo Capo, ma è anche la Sposa, che scaturisce come nuova
Eva dal costato aperto del Redentore sulla croce: per questo Cristo sta davanti
alla Chiesa, la nutre e cura (Ef 5,2) con il dono della sua vita per lei».
In forza dell'ordinazione sacramentale, «il sacerdote
è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa:
certamente egli rimane sempre parte della comunità credente, insieme a tutti
gli altri fratelli e sorelle convocati dallo Spirito, ma in forza della sua
configurazione a Cristo Capo e Pastore si trova in tale posizione sponsale di
fronte alla comunità. In quanto ripresenta Cristo Capo, Pastore e Sposo della
Chiesa, il sacerdote è posto non solo nella Chiesa, ma anche di fronte alla
Chiesa ... La sua vita deve essere illuminata e orientata anche da questo
tratto sponsale».
Gesù si presenta inoltre come Pastore che cammina
"innanzi" (Gv 10,4) alle sue pecorelle e come l'unica loro
"porta" (Gv 10,7), indicando in maniera inequivocabile il suo
rapporto di unicità ed esclusività con esse.
L'ordinazione sacramentale plasma per sempre e
indelebilmente l'essere e l'agire del sacerdote. Perciò può attualizzare il mistero
di Cristo con la parola, i sacramenti e la guida pastorale. Deve quindi essere
ed agire come Cristo, unico Mediatore, Sposo e Capo, e offrirsi in ogni
istante, specie nella celebrazione eucaristica, in maniera totale ed indivisa.
Dalla sua conformazione a Cristo, dal suo rapporto essenziale col corpo
eucaristico e mistico del Signore, e dal suo invio a tutta l'umanità sgorga la
massima convenienza ed attualità del celibato, indipendentemente da mode
transeunti, opinioni di massa o interpretazioni sociologiche.
Certamente il dono del sacerdozio come quello dei
carismi, in particolare quello del celibato, viene comunicato da Cristo al
singolo per la Chiesa e la sua missione nel mondo. La comunità dei credenti
nella sua totalità, già nei primi tre secoli, ha trovato conveniente unire il
dono carismatico del celibato alla sacramentalità del sacerdozio
neo-testamentario, che trascende quello vetero-testamentario ed ogni concezione
puramente culturale.
Il celibato ecclesiastico ha anche una dimensione
escatologica, perché testimonia la futura risurrezione[22][22]
e diventa «segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la fede
e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono in
matrimonio»[23][23].
8.
Fondamento biblico del celibato
I brani di Mt 19,12 sul celibato "per il regno
dei cieli", di I Cor 7,32, in cui si parla di coloro che sono chiamati a
consacrarsi al Signore e alle sue "cose", e anche quelli citati da
Paolo VI nell'Enciclica Sacerdotalis caelibatus[24][24]
riguardano di per sé l'ideale tipicamente cristiano del celibato in generale,
che è vissuto anche dai religiosi, dalle persone consacrate nel mondo. Però,
nota giustamente Ignazio de la Potterie[25][25]
che si può cogliere il fondamento biblico di tale nesso se si valutano meglio
«i testi in cui viene proposta la norma paolina dell’unius uxoris vir».
Christian Cochini[26][26]
e Alfonso Maria Stickler[27][27] ed altri hanno
sottolineato che la clausola paolina è stata una delle principali basi per
ribadire l'origine apostolica dell'obbligo del celibato sacerdotale sancito più
tardi, nel IV secolo.
A partire da qui de la Potterie, dopo ampia e
documentata analisi sull'uso della formula paolina, conclude che è diventato
sempre più chiaro nella tradizione dei primi tre secoli che gli uomini sposati,
accettando il ministero di vescovo, presbitero o diacono, dovevano astenersi
dai rapporti sessuali con la propria consorte. Essendo la formula unius uxoris
vir usata nella Chiesa primitiva solo per i chierici maggiori, "prevaleva
così, oltre il senso immediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico,
un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa.
Questo lo insinuava già Paolo; per lui unius uxoris vir era una formula di
Alleanza: introduceva il ministro nella relazione sponsale tra Cristo e la
Chiesa; per Paolo, la Chiesa era una vergine pura , era la Sposa di Cristo. Ma
questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento
dell'ordinazione, non richiede più oggi, come supporto umano del simbolismo, un
vero matrimonio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti
della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel passato era la
continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo il celibato di
quelli che non lo sono. Però il senso simbolico e spirituale dell'espressione
unius uxoris vir rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento
diretto all'Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci
invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande importanza al fatto
che il ministro della Chiesa rappresenta Cristo-Sposo di fronte alla
Chiesa-Sposa. In questo senso il sacerdote deve essere l'uomo di una sola
donna, ma quell'unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che ... è la
sposa di Cristo»[28][28].
9.
Continenza e celibato in Occidente e in Oriente nei primi tre secoli
In coerenza con i risultati raggiunti da Christian
Cochini[29][29], da Roman
Cholij[30][30], da Enrico
Cattaneo[31][31] e da altri,
Stefan Heid[32][32] ha
sottolineato come dalla continenza esigita dai ministri sposati[33][33] si lasciano
spiegare nel secondo e terzo secolo: la monogamia, la promozione del celibato
permanente, che non deriva affatto dalle prescrizioni purificali del vecchio
testamento, ma dall'offerta che si compie in nome di Cristo del Sacrificio
eucaristico, memoriale della Nuova Alleanza, a cui, come già sosteneva Origene[34][34], deve
corrispondere l'offerta totale del proprio essere ed agire; infine la non
contrapposizione tra il matrimonio, la continenza dopo l'ordinazione e il
celibato in senso stretto. La prima regolazione del celibato con i Canoni
ecclesiastici degli apostoli e col Concilio di Elvira resterebbe inconcepibile
e incomprensibile se non ci fosse stata la disciplina della continenza
generalmente diffusa e accettata in Occidente come in Oriente.
Testi di Epifanio da Salamina, di Girolamo, Giovanni
Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto da Ciro ecc., provano o almeno
presuppongono tale continenza[35][35], e fanno
persino constatare la tendenza al clero celibatario e la preferenza per
candidati celibi[36][36]. Gregorio di
Nazianzio, Gregorio di Nissa, Cirillo di Gerusalemme, Sinesio e i Canoni di
Ippolito parlano chiaramente dell'esistenza effettiva della vita celibataria
anche nel clero d'Oriente[37][37]. Lo stesso è
provato per l'Africa del nord, la Spagna, l'Italia e le Gallie.
Mentre è ben nota l'azione dei papi per la promozione
del celibato in Occidente, Giustiniano col suo Codice lo mantiene nella sua forma
originaria in Oriente[38][38]. Il Sinodo
Quinisesto o Trullano del 691, mentre si rifà a Giustiniano nell'esigere dai
vescovi la continenza assoluta e la separazione definitiva dall'eventuale
consorte, consente ai sacerdoti, diaconi, di aver rapporti coniugali eccetto
durante il periodo di servizio all'altare.
L'unità della disciplina celibataria vigente fino ad
ora in tutta la Chiesa è così infranta, ma il fatto di obbligare ancor oggi al
celibato i vescovi che hanno l'apice e la pienezza del sacerdozio, di non
permettere il matrimonio ai presbiteri e ai diaconi dopo l'ordinazione, né un
secondo matrimonio in caso di vedovanza, afferma l'Arcivescovo Juilianus
Voronovsky, «dimostra chiaramente e conferma la stima che gode il celibato in
Oriente»[39][39]. Non si può
inoltre sorvolare che nelle stesse Chiese orientali un gran numero di aspiranti
al sacerdozio sceglie il celibato proprio per la stima che se ne ha.
10.
Radicalità della vita sacerdotale
La Chiesa latina, pur rispettando il principio della volontarietà
proprio della cultura orientale, ha sempre inserito il sacerdozio nell'ambito
della radicalità evangelica, della povertà, castità e obbedienza. Tale
radicalità descrive, anche se non nella modalità della vita consacrata, non
«un'esistenza individualistica», ma il segno e «la vita che persegue
un'apertura che va oltre i confini»[40][40]
della permanenza sulla terra e anticipa la decisione che inevitabilmente, al
più tardi prima della morte, si deve necessariamente prendere. Così per il dono
del celibato che Gesù offre al sacerdote, questi non è isolato né allontanato
dal mondo ma, secondo una visuale di fede, è pienamente incarnato , inserito
nella storia e in comunione con tutti. Nello stesso tempo è in grado di
richiamare ad ognuno che la vita umana va al di là del suo limitato compimento
quaggiù, e alla Chiesa pellegrinante la sua indole escatologica e la sua unione
con la Chiesa celeste[41][41].
Purtroppo, in una società in larga parte non più
improntata ai valori e comportamenti cristiani, la sessualità ha assunto un
significato fondamentalmente alterato, tanto che, già nelle prime fasi di
sviluppo, appaiono normali modi di sentire e di comportarsi non affatto
favorevoli a scelte di vita quali il matrimonio o il celibato consacrato o
sacerdotale. Non si ha quindi una visione positiva della sessualità e non si
orienta la gioventù ad una matura vita sentimentale che deve sbocciare e
crescere nella sua autentica purezza.
Per di più nelle parrocchie, nei gruppi giovanili di
diverso genere e orientamento, non sempre il sacerdote e l'educatore affrontano
tale argomento con sufficiente profondità e chiarezza. I giovani vanno
illuminati sulla non contrapposizione tra matrimonio e celibato, che ambedue
sono forme fondamentali dell'amore di Dio e quindi interdipendenti, perché ogni
cristiano vive la sua fede sempre e solo come una partecipazione alla missione
di Cristo attualizzata dalla Chiesa nella storia. «Ciascuno dei due modelli di
vita - nota Karl Hillenbrand - ha bisogno del complemento dell'altro: lo sposato
ha bisogno della testimonianza del celibe, perché sia avvertibile come l'amore
di Dio vada oltre la dimensione individuale. Il celibe a sua volta, nella sua
forma di vita, dipende dalla testimonianza del matrimonio cristiano, in cui si
rivela che Dio si lega concretamente e rende sperimentabile in modo
irrevocabile il suo affetto per il mondo nell'amore tra due persone»[42][42]. Alla luce
della fedeltà di Dio va superata la diffusa paura di stringere vincoli stabili.
Il cristiano non deve cedere al pessimismo circa la propria costanza, perché,
in Gesù, Dio si lega definitivamente alla sua vita, sia nell'una come
nell'altra scelta.
Bisogna anche far vedere ai giovani che il legame tra
sacerdozio e celibato non è semplice tradizione e tanto meno obbligo imposto
autoritativa-mente dall'esterno con pericolo di sminuire lo sviluppo psichico,
creare traumi e scissioni interiori e dare adito a dolorose infedeltà. Esso
fluisce coerentemente dallo stile di vita di Gesù testimoniato dalla
Rivelazione, da cui sono nati impulsi per determinate attuazioni. Ora Gesù, che
si è donato una volta per sempre all'intera Chiesa e si rivolge, attraverso di
essa, con amore a tutta l'umanità, nel popolo di Dio ha costituito il ministero
sacerdotale. Lo stile di vita dei ministri, che deve riflettere quello del
Maestro, che ha scelto la castità nel celibato, si è concretizzato nella
tradizione anche con il celibato, senza affatto contraddire il dato rivelato e
svilire il valore sacramentale del matrimonio.
Né si può dire che la scissione tra sacerdozio e
celibato farebbe risaltare meglio il carisma del celibato, che sarebbe scelto
in piena libertà. Infatti vi è interdipendenza tra istituzione e carisma, e la
libertà è attuata dal singolo sempre in condizioni storico-sociali e con presupposti
istituzionali. Nella Chiesa l'autorità conferita da Cristo stesso agli apostoli
e ai loro successori non può contraddire il carisma, che è dono dello Spirito
Santo, ma deve regolarlo per sottolinearne l'importanza per l'intera comunità
ecclesiale e umana, e creargli lo spazio per il suo riconoscimento come dono di
grazia.
Essendo il celibato secondo il nuovo testamento una
delle forme più importanti della sequela di Cristo, sarebbe incongruo non
vederlo praticato da quelli che, conformati a Cristo con l'ordinazione, non
testimonino che la Chiesa fa costante riferimento a Cristo come suo unico
Sposo. Il legame istituzionale tra vocazione al ministero e carisma del
celibato, di cui la Chiesa occidentale e orientale ha preso coscienza sin dagli
inizi, non solo non viola la libertà, ma indica che la missione può essere
confermata di nuovo sul piano personale sempre e solo con l'aiuto di
determinati carismi.
La proposta di ordinare uomini sposati o viri probati,
che ancora taluni si ostinano ad avanzare per l'attuale scarsità di sacerdoti,
in alcuni luoghi, va esaminata piuttosto nella presente situazione di
illanguidimento o estinzione di fede, che esige una nuova evangelizzazione. La
scarsità di clero, laddove si verifica, obbliga ad una pastorale vocazionale,
la quale tenga conto che ogni vocazione al sacerdozio, al pari di ogni
vocazione cristiana, «è la storia di un ineffabile dialogo fra Dio e l'uomo,
tra l'amore di Dio che chiama e la libertà dell'uomo che nell'amore risponde a
Dio»[43][43], vissuto però
non in modo individualistico e intimistico. «La crisi delle vocazioni ha
profonde radici nell'ambiente culturale e nella mentalità e prassi dei
cristiani»[44][44], per cui «è
più che mai necessaria una evangelizzazione che non si stanchi di presentare il
vero volto di Dio, il Padre che in Gesù Cristo chiama ciascuno di noi, e il
senso genuino della libertà umana quale principio e forza del dono responsabile
di se stessi. Solo così saranno poste le basi indispensabili perché ... la
vocazione sacerdotale possa essere percepita nella sua verità, amata nella sua
bellezza e vissuta con dedizione totale e con gioia profonda»[45][45].
Ora tale dedizione va realizzata esistenzialmente, in
unità di culto e vita, soprattutto in vista della celebrazione eucaristica, che
è attualizzazione dell'offerta sacrificale di Cristo per unificare i figli di
Dio che erano dispersi (Gv 11,52). In questo contesto il servizio prestato nel
celibato non si isola in una dimensione di autonomia senza collegarsi a tutti i
membri della Chiesa e all'intera umanità. Ad ovviare, per il momento, alla
privazione della celebrazione eucaristica per alcune comunità, è da promuovere
lo scambio generoso di sacerdoti tra Chiese particolari che ne hanno in
abbondanza e quelle che ne scarseggiano e utilizzare i diaconi i ministri
istituiti, perché si possa ascoltare la parola di Dio e ricevere il corpo del
Signore già consacrato da presbiteri celibi. L'ordinazione sacerdotale di
uomini sposati, oltre a toccare la visione globale del sacerdozio, complica,
piuttosto che risolvere problemi pastorali, perché, fra l'altro, non potrebbe
prescindere da vincoli familiari ineludibili, importerebbe ulteriori decisioni
e dati tali da creare forti pressioni per più ampi cedimenti.
Conserva tutta la sua attualità ciò che disse il
17.11.1980 Giovanni Paolo II a sacerdoti e chierici nella cattedrale di Fulda
durante la sua visita in Germania:
L'amicizia con Gesù Cristo, questo è il motivo più
profondo per cui è così importante per il sacerdote una vita di celibato, totalmente
nello spirito dei consigli evangelici. Avere il cuore e le mani libere per
l'amico Gesù Cristo, essere totalmente disponibili e portare il suo amore a
tutti, questa è una testimonianza che in un primo momento non viene compresa da
tutti. Ma se offriamo questa testimonianza dal di dentro, se la viviamo come
forma esistenziale dell'amicizia per Gesù, crescerà di nuovo nella società
anche la comprensione per questa forma di vita che è fondata nel Vangelo[46][46].