Congregazione
per la Dottrina della Fede
Alcuni aspetti
della meditazione cristiana
Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica
I
INTRODUZIONE
1. In molti cristiani del nostro tempo è vivo il
desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito, nonostante le
non poche difficoltà che la cultura moderna pone all’avvertita esigenza di
silenzio, di raccoglimento e di meditazione. L’interesse che forme di
meditazione connesse a talune religioni orientali e ai loro peculiari modi di
preghiera in questi anni hanno suscitato anche tra i cristiani è un segno non
piccolo di tale bisogno di raccoglimento spirituale e di profondo contatto col
mistero divino. Di fronte a questo fenomeno, tuttavia, da molte parti è sentita
pure la necessità di poter disporre di sicuri criteri di carattere dottrinale e
pastorale che consentano di educare alla preghiera, nelle sue molteplici
manifestazioni, restando nella luce della verità rivelatasi in Gesù, tramite la
genuina tradizione della Chiesa. A tale urgenza intende rispondere la presente
Lettera, affinché nelle varie Chiese particolari, la pluralità di forme, anche
nuove, di preghiera non ne faccia mai perdere di vista la precisa natura,
personale e comunitaria. Queste indicazioni
sono rivolte anzitutto ai Vescovi perché le rendano oggetto di
sollecitudine pastorale verso le Chiese, loro affidate, così che tutto il popolo di Dio – sacerdoti, religiosi e laici – sia
richiamato a pregare, con rinnovato vigore, il Padre mediante lo Spirito di
Cristo nostro Signore.
2. II contatto sempre più frequente con altre
religioni e con i loro differenti stili e metodi di preghiera, ha condotto
negli ultimi decenni molti fedeli a interrogarsi sul valore che possono avere
per i cristiani forme non cristiane di meditazione. La questione riguarda
soprattutto i metodi orientali.[1] C’è
chi si rivolge oggi a tali metodi per motivi terapeutici: la irrequietezza
spirituale di una vita sottoposta al ritmo assillante della società
tecnologicamente avanzata spinge anche un certo numero di cristiani a cercare
in essi la via della calma interiore e dell’equilibrio psichico. Questo aspetto
psicologico non sarà considerato nella presente Lettera, che intende invece
evidenziare le implicazioni teologiche e spirituali della questione. Altri
cristiani, sulla scia del movimento di apertura e di scambio con religioni e
culture diverse, sono del parere che la loro stessa preghiera abbia molto da
guadagnare da tali metodi. Rilevando che, in tempi recenti, non pochi metodi
tradizionali di meditazione, peculiari del cristianesimo, sono caduti in
disuso, costoro si chiedono: non sarebbe allora possibile, attraverso una nuova
educazione alla preghiera, arricchire la nostra eredità incorporandovi anche
ciò che le era finora estraneo?
3. Per rispondere a questa domanda, occorre
anzitutto considerare, sia pure a grandi linee, in che cosa consista la natura
intima della preghiera cristiana, per vedere in seguito se e come possa essere
arricchita da metodi di meditazione nati nel contesto di religioni e culture
diverse. È necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera
cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella
quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si
configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo,
tra l’uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con
la vita intima delle Persone trinitarie. In questa comunione, che si fonda sul
battesimo e sull’eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è
implicato un atteggiamento di conversione, un esodo dall’io verso il Tu di Dio.
La preghiera cristiana quindi è sempre allo stesso tempo autenticamente
personale e comunitaria. Rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull’io,
capaci di produrre automatismi nei quali l’orante resta prigioniero di uno
spiritualismo intimista, incapace di un’apertura libera al Dio trascendente.
Nella Chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre
tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l’incontro di due libertà, quella
infinita di Dio con quella finita dell’uomo.
II
LA PREGHIERA CRISTIANA
ALLA LUCE DELLA RIVELAZIONE
4. Come debba pregare l’uomo che accoglie la
rivelazione biblica lo insegna la Bibbia stessa. Nell’Antico Testamento c’è una
meravigliosa raccolta di preghiere, rimasta viva lungo i secoli anche nella
Chiesa di Gesù Cristo, nella quale essa è diventata la base della preghiera
ufficiale: il Libro delle Lodi o dei Salmi.[2]
Preghiere del tipo dei Salmi si trovano già in testi più antichi o vengono
riecheggiate in testi più recenti dell’Antico Testamento.[3]
Le preghiere del Libro dei Salmi narrano anzitutto le grandi opere di Dio per
il popolo eletto. Israele medita, contempla e rende di nuovo presenti le
meraviglie di Dio, facendone memoria attraverso la preghiera.
Nella rivelazione biblica Israele giunge a
riconoscere e lodare Dio, presente in tutta la creazione e nel destino di ogni
uomo. Così Lo invoca, ad esempio, come soccorritore nel pericolo, nella
malattia, nella persecuzione, nella tribolazione. Infine, sempre alla luce
delle sue opere salvifiche, Egli viene celebrato nella sua divina potenza e
bontà, nella sua giustizia e misericordia, nella sua regale grandezza.
5. Grazie alle parole, alle opere, alla Passione e
Risurrezione di Gesù Cristo, nel Nuovo Testamento la fede riconosce in Lui la
definitiva autorivelazione di Dio, la Parola incarnata che svela le profondità
più intime del suo amore. E lo Spirito Santo che fa penetrare in queste
profondità di Dio, lui che, inviato nel cuore dei credenti, «scruta ogni cosa,
anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,10). Lo Spirito, secondo la promessa di
Gesù ai discepoli, spiegherà tutto ciò che
Egli non poteva ancora dire loro. Però lo Spirito «non parlerà da sé,... ma mi
glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,13s). Quello
che Gesù chiama qui «suo» è, come spiega in seguito, anche di Dio Padre, perché
«tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del
mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,15).
Gli autori del Nuovo Testamento, con piena
consapevolezza, hanno sempre parlato della rivelazione di Dio in Cristo all’interno
di una visione illuminata dallo Spirito Santo. I Vangeli sinottici narrano le
opere e le parole di Gesù Cristo in base alla comprensione più profonda,
acquisita dopo la Pasqua, di ciò che i discepoli avevano visto e udito; tutto il Vangelo di
Giovanni respira della contemplazione di colui che fin dall’inizio è il Verbo
di Dio fatto carne; Paolo, al quale Gesù è apparso sulla via di Damasco nella
sua maestà divina, tenta di educare i fedeli perché siano «in grado di
comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e
la profondità [del Mistero di Cristo] e conoscere l’amore di Cristo che
sorpassa ogni conoscenza, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,18s). Per Paolo il
«Mistero di Dio è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza
e della scienza» (Col 2,3) e – precisa l’Apostolo –: «Dico questo perché
nessuno vi inganni con argomenti seducenti» (v. 4).
6. Esiste quindi uno stretto rapporto fra la
rivelazione e la preghiera. La Costituzione dogmatica Dei Verbum ci insegna che mediante la sua
rivelazione Dio invisibile «nel suo immenso amore parla agli uomini come ad
amici (cf Es 33,11; Gv 15,14‑15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per
invitarli e ammetterli alla comunione con sé».[4]
Questa rivelazione si è attuata attraverso parole e
opere che rinviano sempre, reciprocamente, le une alle altre; fin dall’inizio e
di continuo tutto converge
verso Cristo, pienezza della rivelazione e della grazia, e verso il dono dello
Spirito Santo. Questi rende l’uomo capace di accogliere e contemplare le parole
e le opere di Dio e di ringraziano e adorarlo, nell’assemblea dei fedeli e nell’intimità
del proprio cuore illuminato dalla grazia.
Per questo la Chiesa raccomanda sempre la lettura
della Parola di Dio come sorgente della preghiera cristiana, e allo stesso
tempo esorta a scoprire il senso profondo della Sacra Scrittura mediante la
preghiera «affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché “gli
parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini”».[5]
7. Da quanto è stato ricordato derivano subito
alcune conseguenze. Se la preghiera del cristiano deve inserirsi nel movimento
trinitario di Dio, il suo contenuto essenziale dovrà necessariamente essere
anche determinato dalla duplice direzione di tale movimento: nello Spirito
Santo il Figlio viene nel mondo per riconciliarlo col Padre attraverso le sue
opere e le sue sofferenze; d’altra parte, nello stesso movimento e nel medesimo
Spirito, il Figlio incarnato ritorna al Padre, compiendo la sua volontà
mediante la Passione e la Risurrezione. II «Padre nostro», la preghiera di
Gesù, indica chiaramente l’unità di questo movimento: la volontà del Padre deve
realizzarsi sulla terra come in cielo (le richieste di pane, di perdono, di
protezione esplicitano le dimensioni fondamentali della volontà di Dio verso di
noi) affinché una nuova terra viva e si sviluppi nella Gerusalemme celeste.
È alla Chiesa che la preghiera di Gesù[6]
viene consegnata («così voi dovete pregare», Mt 6,9) e per questo la preghiera
cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all’interno di quella «comunione dei
santi» nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica
quanto in forma privata. Pertanto, essa deve compiersi sempre nello spirito
autentico della Chiesa in preghiera e quindi sotto la sua guida, che può
concretizzarsi talvolta in una direzione spirituale sperimentata. Il
cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di
pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito Santo, insieme con tutti i
santi per il bene della Chiesa.[7]
III
MODI ERRONEI DI PREGARE
8. Già nei primi secoli s’insinuarono nella Chiesa
modi erronei di pregare, di cui già alcuni testi del Nuovo Testamento (cf 1 Gv
4,3; 1 Tm 1,3‑7 e 4,3‑4) fanno riconoscere le tracce. In seguito si possono
rilevare due deviazioni fondamentali: la pseudognosi e il messalianismo, di cui
si sono occupati i Padri della Chiesa. Da quella primitiva esperienza cristiana
e dall’atteggiamento dei Padri si può imparare molto per affrontare la
problematica contemporanea.
Contro la deviazione della pseudognosi[8] i
Padri affermano che la materia è creata da Dio e come tale non è cattiva.
Inoltre sostengono che la grazia, la cui sorgente è sempre lo Spirito Santo,
non è un bene proprio dell’anima, ma dev’essere impetrata da Dio come dono.
Perciò l’illuminazione o conoscenza superiore dello Spirito («gnosi»), non
rende superflua la fede cristiana. Infine, per i Padri, il segno autentico di
una conoscenza superiore, frutto della preghiera, è sempre l’amore cristiano.
9. Se la perfezione della preghiera cristiana non
può essere valutata in base alla sublimità
della conoscenza gnostica, non può esserlo neppure in riferimento all’esperienza
del divino, alla maniera del messalianismo.[9] I
falsi carismatici del IV secolo identificavano la grazia dello Spirito Santo con l’esperienza
psicologica della sua presenza nell’anima. Contro di essi i Padri insistettero
sul fatto che l’unione dell’anima orante con Dio si compie nel mistero, in
particolare attraverso i sacramenti della Chiesa. Essa può inoltre realizzarsi
perfino attraverso esperienze di afflizione e anche di desolazione.
Contrariamente all’opinione dei Messaliani, queste non sono necessariamente un
segno che lo Spirito ha abbandonato l’anima. Come hanno sempre chiaramente
riconosciuto i maestri spirituali, possono invece essere un’autentica
partecipazione allo stato di abbandono di Nostro Signore sulla croce, il quale
resta sempre modello e mediatore della preghiera.[10]
10. Tutte e due queste forme di errore continuano a
essere una tentazione per l’uomo peccatore. Lo istigano a cercare di superare
la distanza che separa la creatura dal Creatore, come qualcosa che non dovrebbe
esserci; a considerare il cammino di Cristo sulla terra, con il quale egli ci
vuole condurre al Padre, come realtà superata; ad abbassare ciò che viene
accordato come pura grazia al livello della psicologia naturale, come
«conoscenza superiore» o come «esperienza».
Riapparse di tanto in tanto nella storia ai margini
della preghiera della Chiesa, tali forme erronee oggi sembrano impressionare
nuovamente molti cristiani, raccomandandosi loro come rimedio, sia psicologico
che spirituale, e come rapido procedimento per trovare Dio.[11]
11. Ma queste forme erronee, dovunque sorgano,
possono essere diagnosticate in maniera molto semplice. La meditazione
cristiana orante cerca di cogliere nelle opere salvifiche di Dio in Cristo,
Verbo Incarnato, e nel dono del suo Spirito la profondità divina, che vi si
rivela sempre attraverso la dimensione umano‑terrena. Invece, in simili metodi
di meditazione, anche quando si prende lo spunto da parole e opere di Gesù, si
cerca di prescindere il più possibile da ciò che è terreno, sensibile e
concettualmente limitato, per salire o
immergersi nella sfera del divino, che in quanto tale non è né terrestre, né
sensibile, né concettualizzabile.[12]
Questa tendenza, presente già nella tarda religiosità greca (soprattutto nel
«neoplatonismo»), si riscontra, in fondo, nell’ispirazione religiosa di molti
popoli, non appena essi abbiano riconosciuto il carattere precario delle loro
rappresentazioni del divino e dei loro tentativi di avvicinarvisi.
12. Con l’attuale diffusione dei metodi orientali
di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di
fronte ad un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di
fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana. Le proposte in
questo senso sono numerose e più o meno radicali: alcune utilizzano metodi
orientali solo ai fini di una preparazione psicofisica per una contemplazione
realmente cristiana; altre vanno oltre e cercano di generare, con diverse
tecniche, esperienze spirituali analoghe a quelle di cui si parla in scritti di
certi mistici cattolici;[13]
altre ancora non temono di collocare quell’assoluto senza immagini e concetti,
proprio della teoria buddista,[14]
sullo stesso piano della maestà di Dio, rivelata in Cristo, che si eleva al di
sopra della realtà finita e, a tal fine, si servono di una «teologia negativa»
che trascende ogni affermazione contenutistica su Dio, negando che le cose del
mondo possono essere una traccia che rinvia all’infinità di Dio. Per questo propongono
di abbandonare non solo la meditazione delle opere salvifiche che il Dio dell’Antica
e della Nuova Alleanza ha compiuto nella storia, ma anche l’idea stessa del Dio
uno e trino, che è amore, in favore di un’immersione «nell’abisso indeterminato
della divinità».[15]
Queste proposte o altre analoghe di armonizzazione
tra meditazione cristiana e tecniche orientali dovranno essere continuamente
vagliate con accurato discernimento di contenuti e di metodo, per evitare la
caduta in un pernicioso sincretismo.
IV
LA VIA CRISTIANA DELL’UNIONE
CON DIO
13. Per trovare la giusta «via» della preghiera, il
cristiano considererà ciò che è stato precedentemente detto a proposito dei
tratti salienti della via di Cristo, il cui «cibo è fare la volontà di colui
che (lo) ha mandato a compiere la sua opera» (Gv 4,34). Gesù non vive con il
Padre un’unione più intima e più stretta di questa, che per lui si traduce
continuamente in una profonda preghiera. La volontà del Padre lo invia agli
uomini, ai peccatori, addirittura ai suoi uccisori ed egli non può essere più
intimamente unito al Padre che ubbidendo a questa volontà. Ciò non impedisce in
alcun modo che nel cammino terreno egli si ritiri anche nella solitudine per
pregare, per unirsi al Padre e ricevere da Lui nuovo vigore per la sua missione
nel mondo. Sul Tabor, dove certamente egli è unito al Padre in maniera
manifesta, viene evocata la sua passione (cf Lc 9,31) e non viene neppure presa
in considerazione la possibilità di permanere in «tre tende» sul monte della
trasfigurazione. Ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all’amore del prossimo, all’azione
e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio.
14. Per accostarsi a quel mistero dell’unione con
Dio, che i Padri greci chiamavano divinizzazione
dell’uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si
compie, occorre tener presente anzitutto che l’uomo è essenzialmente creatura[16] e tale
rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano
nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere
che la persona umana è creata «ad immagine e somiglianza» di Dio, e l’archetipo
di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati
creati (cf Col 1,16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel
mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità «altro» rispetto al Padre e
tuttavia, nello Spirito Santo, è «della stessa sostanza»; di conseguenza il
fatto che ci sia un’alterità, non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni.
C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in Tre Persone, e c’è
alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine nella
santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti – e analogamente nelle sue
opere e nelle sue parole – Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della
sua natura divina,[17]
senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso
partecipa con la sua incarnazione.
15. Se si considerano insieme queste verità, si
scopre, con profonda meraviglia, che nella realtà cristiana vengono adempiute,
oltre ogni misura, tutte le aspirazioni
presenti nella preghiera delle altre religioni, senza che con questo l’io
personale e la sua creaturalità debbano essere annullati e scomparire nel mare
dell’Assoluto. «Dio è amore» (1 Gv 4,8): questa affermazione profondamente
cristiana può conciliare l’unione perfetta con l’alterità tra amante e amato,
con l’eterno scambio e l’eterno dialogo. Dio stesso è questo eterno scambio, e
noi possiamo in piena verità diventare partecipi di Cristo, quali «figli
adottivi», e gridare con il Figlio nello Spirito Santo: «Abbà, Padre».
In questo senso, i Padri hanno pienamente ragione
di parlare di divinizzazione dell’uomo che, incorporato a Cristo Figlio di Dio
per natura, diventa per la sua grazia partecipe della natura divina, «figlio
nel Figlio». II cristiano, ricevendo lo Spirito Santo, glorifica il Padre e
partecipa realmente alla vita trinitaria di Dio.
V
QUESTIONI DI METODO
16. La maggior parte delle grandi religioni che
hanno cercato l’unione con Dio nella preghiera, hanno anche indicato le vie per
conseguirla. Siccome «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e
santo in queste religioni»,[18]
non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non
cristiane. Si potrà al contrario cogliere da esse ciò che vi è di utile, a
condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera,
la sua logica e le sue esigenze, poiché è all’interno di questa totalità che
quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti. Tra di essi si può
annoverare anzitutto l’umile accettazione di un maestro esperto nella vita di
preghiera e delle sue direttive; di ciò si è sempre avuto consapevolezza nell’esperienza
cristiana sin dai tempi antichi, dall’epoca
dei Padri del deserto. Questo maestro, esperto nel «sentire cum ecclesia», deve
non solo guidare e richiamare l’attenzione su certi pericoli, ma, quale «padre
spirituale», deve anche introdurre in maniera viva, da cuore a cuore,
nella vita di preghiera, che è dono dello Spirito Santo.
17. La tarda classicità non cristiana distingueva volentieri tre stadi nella vita di
perfezione: la via della purificazione, dell’illuminazione e dell’unione. Questa
dottrina è servita da modello per molte scuole di spiritualità cristiana.
Questo schema, in se stesso valido, necessita tuttavia di alcune precisazioni,
che ne permettano una corretta interpretazione cristiana, evitando pericolosi
fraintendimenti.
18. La ricerca di Dio mediante la preghiera deve
essere preceduta ed accompagnata dalla ascesi e dalla purificazione dai propri
peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù soltanto «i puri di cuore
vedranno Dio» (Mt 5,8). 11 Vangelo mira soprattutto a una purificazione morale
dalla mancanza di verità e di amore e, su un piano più profondo, da tutti gli
istinti egoistici che impediscono all’uomo di riconoscere ed accettare la
volontà di Dio nella sua purezza. Non sono le passioni in quanto tali ad essere
negative (come pensavano gli stoici e i neoplatonici), ma la loro tendenza
egoistica. E da essa che il cristiano deve liberarsi: per arrivare a quello
stato di libertà positiva che la classicità cristiana chiamava «apatheia», il
Medio Evo «impassibiitas», e gli Esercizi Spirituali ignaziani «indiferencia».[19]
Ciò è impossibile senza una radicale abnegazione,
come si vede anche in san Paolo che usa apertamente la parola «mortificazione»
(delle tendenze peccaminose).[20]
Solo questa abnegazione rende l’uomo libero di realizzare la volontà di Dio e
di partecipare alla libertà dello Spirito Santo.
19. Dovrà perciò essere interpretata rettamente la dottrina di quei maestri che
raccomandano di «svuotare» lo spirito da ogni rappresentazione sensibile e da ogni concetto, mantenendo però una
amorosa attenzione a Dio, così che rimanga nell’orante un vuoto che può allora
essere riempito dalla ricchezza divina. Il vuoto di cui Dio ha bisogno è quello
della rinuncia al proprio egoismo, non necessariamente quello della rinuncia
alle cose create che egli ci ha donato e tra le quali ci ha posti. Non vi è
dubbio che nella preghiera ci si deve concentrare interamente su Dio ed
escludere il più possibile quelle cose di questo mondo che ci incatenano al
nostro egoismo. Sant’Agostino è su questo punto un maestro insigne: se vuoi
trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso.
Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché
tu non sei Dio: Egli è più profondo e più grande dite. «Cerco la sua sostanza
nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e,
proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le “perfezioni
invisibili di Dio” (Rm 1,20)».[21]
Restare in se stessi: ecco il vero pericolo. II grande Dottore della Chiesa
raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l’io che non è
Dio, ma solo una creatura. Dio è «interior intimo meo, et superior summo meo».[22]
Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero.[23]
20. Dal punto di vista dogmatico, è impossibile arrivare
all’amore perfetto di Dio se si prescinde dalla sua autodonazione nel Figlio
incarnato, crocifisso e risuscitato. In Lui, sotto l’azione dello Spirito
Santo, prendiamo parte, per pura grazia, alla vita intradivina. Quando Gesù
dice: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9), non intende semplicemente
la visione e la conoscenza esteriori della sua figura umana («la carne non
giova a nulla», Gv 6,63). Ciò che intende è piuttosto un «vedere» reso
possibile dalla grazia della fede: vedere attraverso la manifestazione
sensibile di Gesù ciò che questi, quale Verbo del Padre, vuole veramente
mostrarci di Dio («È lo Spirito che dà la vita [...]; le parole che vi ho dette
sono spirito e vita», ibid.). In
questo «vedere» non si tratta dell’astrazione puramente umana («abstractio»)
dalla figura in cui Dio si è rivelato, ma del cogliere la realtà divina nella
figura umana di Gesù, del cogliere la sua dimensione divina ed eterna nella sua
temporalità. Come dice sant’Ignazio negli Esercizi spirituali, dovremmo tentare di cogliere «il profumo infinito e
la dolcezza infinita della divinità» (n. 124), partendo dalla finita verità
rivelata dalla quale abbiamo iniziato. Mentre ci eleva, Dio è libero di
«svuotarci» di tutto ciò che ci trattiene in questo mondo, di attirarci
completamente nella vita trinitaria del suo amore eterno. Tuttavia, questo dono
può essere concesso solo «in Cristo attraverso lo Spirito Santo» e non
attraverso le proprie forze, astraendo dalla sua rivelazione.
21. Nel cammino della vita cristiana alla
purificazione segue l’illuminazione mediante l’amore che il Padre ci dona nel
Figlio e l’unzione che da Lui riceviamo nello Spirito Santo (cf 1 Gv 2,20).
Fin dall’antichità cristiana si fa riferimento alla
«illuminazione» ricevuta nel battesimo.
Essa introduce i fedeli, iniziati ai divini misteri, alla conoscenza di
Cristo mediante la fede che opera per mezzo della carità. Anzi, alcuni scrittori ecclesiastici parlano in
modo esplicito dell’illuminazione ricevuta nel battesimo come
fondamento di quella sublime conoscenza di Cristo Gesù (cf Fu 3,8) che viene
definita come «theoria» o contemplazione.[24]
I fedeli, con la grazia del battesimo, sono
chiamati a progredire nella conoscenza e nella testimonianza dei misteri della
fede mediante «la profonda intelligenza che essi esperiscono delle cose
spirituali».[25]
Nessuna luce di Dio rende superate le verità della fede. Le eventuali grazie di
illuminazione che Dio può concedere aiutano piuttosto a chiarir meglio la
dimensione più profonda dei misteri confessati e celebrati dalla Chiesa, in
attesa che il cristiano possa contemplare Dio come Egli è nella gloria (cf 1 Gv
3,2).
22. 11 cristiano orante, infine, può arrivare, se
Dio lo vuole, ad una esperienza particolare di unione. I sacramenti,
soprattutto il battesimo e l’eucaristia,[26]
sono l’inizio obiettivo dell’unione del cristiano con Dio. Su questo
fondamento, per una speciale grazia dello Spirito, l’orante può essere chiamato
a quel tipo peculiare di unione con Dio che, nell’ambito cristiano, viene
qualificato come mistica.
23. Certamente il cristiano ha bisogno di
determinati tempi di ritiro nella solitudine per raccogliersi e ritrovare,
presso Dio, il suo cammino. Ma dato il suo carattere di creatura, e di creatura
che sa di essere al sicuro solo nella grazia, il suo modo di avvicinarsi a Dio
non si fonda su alcuna tecnica nel senso stretto della parola. Ciò
contraddirebbe lo spirito d’infanzia richiesto dal Vangelo. La mistica
cristiana autentica non ha niente a che vedere con la tecnica: è sempre un dono
di Dio, di cui chi ne beneficia si sente indegno.[27]
24. Ci sono determinate grazie mistiche, conferite
ad esempio ai fondatori di istituzioni ecclesiali in favore di tutta la loro
fondazione nonché ad altri santi,
che caratterizzano la loro peculiare esperienza di preghiera e che non possono,
come tali, essere oggetto di imitazione e di aspirazione per altri fedeli,
anche appartenenti alla stessa istituzione, e desiderosi di una preghiera
sempre più perfetta.[28]
Possono esserci diversi livelli e diverse modalità di partecipazione all’esperienza
di preghiera di un fondatore, senza che a tutti debba venir conferita la
medesima forma. Del resto l’esperienza di preghiera che ha un posto privilegiato
in tutte le istituzioni autenticamente ecclesiali antiche e moderne, è sempre
in ultima analisi qualcosa di personale. Ed è alla persona che Dio dona le sue
grazie in vista della preghiera.
25. A proposito della mistica si deve distinguere
tra i doni dello Spirito Santo e i carismi accordati in modo totalmente libero
da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso
una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria
ascesi, arrivare ad una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede.
Quanto ai carismi san Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della
Chiesa, degli altri membri del Corpo mistico di Cristo (cf 1 Cor 12,7). A
questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati
con dei doni straordinari («mistici») (cf Rm 12,3‑21), sia che
la distinzione fra i «doni dello Spirito Santo» e i «carismi» può essere
fluida. Certo è che un carisma fecondo per la Chiesa non può, nell’ambito
neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione
personale e che, d’altra parte, ogni cristiano «vivo» possiede un compito
peculiare (e in questo senso un «carisma») «per l’edificazione del Corpo di
Cristo» (cf Ef 4,15‑16),[29]
in comunione con la Gerarchia, alla quale «spetta soprattutto di non estinguere
lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che
è buono» (LG n. 12).
VI
METODI PSICOFISICI‑CORPOREI
26. L’esperienza umana dimostra che la posizione e
l’atteggiamento del corpo non sono privi d’influenza sul raccoglimento e la
disposizione dello spirito. E un dato
al quale alcuni scrittori spirituali dell’Oriente e dell’Occidente cristiano
hanno prestato attenzione.
Le loro riflessioni, pur presentando punti in
comune con i metodi orientali non cristiani di meditazione, evitano quelle
esagerazioni o unilateralità che, invece, spesso vengono oggi proposte a
persone non sufficientemente preparate.
Questi autori spirituali hanno adottato quegli
elementi che facilitano il raccoglimento nella preghiera, riconoscendone al
contempo anche il valore relativo: essi sono utili se riformulati in vista del
fine della preghiera cristiana.[30]
Ad esempio, il digiuno nel cristianesimo possiede anzitutto il significato di
un esercizio di penitenza e di sacrificio, ma già presso i Padri, era anche
finalizzato a rendere l’uomo più disponibile
all’incontro con Dio ed il cristiano più capace di dominio di
sé e allo stesso tempo più attento ai fratelli bisognosi.
Nella preghiera è tutto l’uomo che deve entrare in
relazione con Dio, e dunque anche il suo corpo deve assumere la posizione più
adatta per il raccoglimento.[31]
Tale posizione può esprimere in modo simbolico la preghiera stessa, variando a
seconda delle culture e della sensibilità personale. In alcune aree, i
cristiani, oggi, stanno acquisendo maggior consapevolezza di quanto l’atteggiamento
del corpo possa favorire la preghiera.
27. La meditazione cristiana dell’oriente[32]
ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente, nella preghiera dell’Occidente.
Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere
anche le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito
cardiaco. L’esercizio della «preghiera di Gesù» ad esempio, che si adatta al
ritmo respiratorio naturale, può – almeno per un certo tempo – essere di reale
aiuto per molti.[33] D’altra
parte gli stessi maestri orientali hanno anche costatato che non tutti sono
ugualmente idonei a far uso di questo simbolismo, perché non tutti sono in
grado di passare dal segno materiale
alla realtà spirituale ricercata. Compreso in modo inadeguato e non corretto, il
simbolismo può diventare addirittura un idolo e di conseguenza un impedimento
all’elevazione dello spirito a Dio. Vivere nell’ambito della preghiera tutta la
realtà del proprio corpo come simbolo è ancora più difficile: ciò può
degenerare in un culto del corpo e può portare ad identificare surrettiziamente
tutte le sue
sensazioni con esperienze spirituali.
28. Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di
distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di
calore che assomigliano ad un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche
consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di
concepire il cammino spirituale. Attribuire loro significati simbolici
tipici dell’esperienza mistica,
quando l’atteggiamento morale dell’interessato non corrisponde ad essa,
rappresenterebbe una specie di schizofrenia mentale, che può condurre perfino a
disturbi psichici e, talvolta, ad aberrazioni
morali.
Ciò non toglie che autentiche pratiche di
meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non
cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e
disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare
davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni
esterne.
Occorre tuttavia ricordare che l’unione abituale
con Dio, o quell’atteggiamento di vigilanza interiore e di invocazione dell’aiuto
divino che nel Nuovo Testamento viene chiamato la «preghiera continua»,[34]
non si interrompe necessariamente quando ci si dedica anche, secondo la volontà
di Dio, al lavoro e alla cura del prossimo. «Sia dunque che mangiate, sia che
beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di
Dio», ci dice l’Apostolo (1 Cor 10,31). La preghiera autentica infatti, come
sostengono i grandi maestri spirituali, desta negli oranti un’ardente carità
che li spinge a collaborare alla missione della Chiesa e al servizio dei
fratelli per la maggior gloria di Dio.[35]
VII
«IO SONO LA VIA»
29. Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella
varietà e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla Chiesa, la
propria via, il proprio modo di preghiera;
ma tutte queste vie personali confluiscono, alla fine, in
quella via al Padre, che Gesù Cristo ha detto di essere. Nella ricerca della
propria via ognuno si lascerà quindi condurre non tanto dai suoi gusti
personali quanto dallo Spirito Santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al
Padre.
30. Per chi si impegna seriamente verranno comunque
tempi in cui gli sembrerà di vagare in un deserto e di non «sentire» nulla di
Dio, malgrado tutti i suoi sforzi. Deve sapere che queste prove non vengono
risparmiate a nessuno che prenda sul serio la preghiera. Ma egli non deve
identificare immediatamente questa esperienza, comune a tutti i cristiani che
pregano, con la «notte oscura» di tipo mistico. Ad ogni modo in quei periodi la
preghiera, che egli si sforzerà di mantenere fermamente, potrà dargli l’impressione
di una certa «artificiosità» benché si tratti in realtà di qualcosa di
totalmente diverso: essa è infatti proprio allora espressione della sua fedeltà
a Dio, alla presenza del quale egli vuole rimanere anche quando non è
ricompensato da alcuna consolazione soggettiva.
In questi momenti apparentemente negativi diventa
manifesto ciò che l’orante cerca realmente: se cerca proprio Dio che, nella sua
infinita libertà, sempre lo supera, oppure se cerca solo se stesso, senza riuscire
ad andare oltre le proprie «esperienze», sia che gli sembrino «esperienze»
positive di unione con Dio che «esperienze» negative di «vuoto» mistico.
31. L’amore di Dio, unico oggetto della
contemplazione cristiana, è una realtà della quale non ci si può «impossessare»
con nessun metodo o tecnica; anzi, dobbiamo aver sempre lo sguardo fisso in
Gesù Cristo, nel quale l’amore divino è giunto per noi sulla croce a tal punto
che Egli si è assunto anche la condizione di allontanamento dal Padre (cf Mc
15,34). Dobbiamo dunque lasciar decidere a Dio la maniera con cui egli vuole
farci partecipi del suo amore. Ma non possiamo mai, in alcun modo, cercare di
metterci allo stesso livello dell’oggetto contemplato, l’amore libero di Dio;
neanche quando, per la misericordia di Dio Padre, mediante lo Spirito Santo
mandato nei nostri cuori, ci viene donato in Cristo, gratuitamente, un riflesso
sensibile di questo amore divino e ci sentiamo come attirati dalla verità,
dalla bontà e dalla bellezza del Signore.
Quanto più viene concesso a una creatura di
avvicinarsi a Dio, tanto maggiormente cresce in lei la riverenza davanti al
Dio, tre volte Santo. Si comprende allora la parola di sant’Agostino: «Tu puoi
chiamarmi amico, io mi riconosco servo».[36]
Oppure la parola che ci è ancora più familiare, pronunciata da colei che è
stata gratificata della più alta intimità con Dio: «Ha guardato l’umiltà della
sua serva» (Lc 1,48).
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso
dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la
presente Lettera, decisa nella riunione plenaria di questa Congregazione, e ne
ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la
Dottrina della Fede, il 15 ottobre 1989, nella festa di Santa Teresa di Gesù.
JOSEPH Card. RATZINGER
Prefetto
ALBERTO BOVONE
Arciv. Tit. di Cesarea di
Numidia
Segretario
UNA PAROLA
DI CHIARIFICAZIONE:
LA PREGHIERA È FEDE
IN ATTO
L’intervento del Card. Ratzinger alla conferenza stampa
Molti si chiederanno perché la Congregazione per la
Dottrina della Fede sia giunta alla determinazione di scrivere una Lettera
sulla meditazione cristiana. La risposta è semplice. La meditazione è una forma
di preghiera, sulla quale negli ultimi anni si è concentrato sempre più
interesse, perché essa sembra offrire un contrappeso di fronte all’agitazione
dell’esistenza contemporanea ‑ una medicina addirittura, che a partire dall’interno,
dal cuore, promette di guarire l’uomo, di dargli la liberazione dallo stress
quotidiano e la pace interiore. In tal modo una forma di preghiera è
improvvisamente divenuta interessante per l’esistenza moderna, ben al di là del
cerchio dei credenti, perché sempre più insorgono dubbi nei confronti dei
metodi terapeutici orientati in modo esclusivamente scientifico. Una nuova
coscienza dell’unità della persona umana nella sua corporeità e nella sua spiritualità fa
diventare urgente ovunque la ricerca di una terapia attenta alla globalità
della persona. Questo ritorno alla dimensione spirituale
dell’esistenza umana, che paradossalmente trova attenzione perfino in
ambienti materialistici, non può essere salutata in se
stessa se non con soddisfazione. Essa porta con sé tuttavia anche il pericolo
di nuove unilateralità e di un travisamento dell’essenza della religione.
Infatti facilmente può prendere il sopravvento un atteggiamento egoistico,
utilitaristico: Dio si dissolve in una indeterminata dimensione spirituale e questa a sua volta si pone
semplicemente al servizio dei fini del proprio Io. Una «preghiera» di questo
tipo non dischiude più l’essere umano; invece di guidarlo nell’esodo da se
stesso, diviene pura attestazione di sé. Lo spirituale o l’infinito che ha ormai
assunto una dimensione impersonale diviene semplicemente un bagno nel quale l’essere
umano rafforza se stesso ovvero cerca di liberarsi dal peso dell’essere persona
affondando beatamente nel gran fiume dell’essere. La religione diviene così
strumentalizzazione del divino per i propri scopi; diventa fuga in piacevoli
sensazioni ovvero mezzo terapeutico. La tentazione talvolta non è poca anche
per i credenti di rifugiarsi nella tecnica dell’immersione sfuggendo all’incontro
personale con il Dio della fede, di sostituire l’impegno personale con la
tecnica che non esige più alcun atto di fede, ma solo il padroneggiamento delle
regole. In tal caso si resta ancora religiosi o lo si diviene anche più di
prima; magari si continua ad usare come simboli i contenuti cristiani, ma l’immagine
di Dio e dell’essere umano si muta radicalmente, perché scompare il confronto
diretto con il Dio vivente. Dietro la facciata di una religiosità rinnovata si
sgretola la fede, si dissolve ciò che è specificamente cristiano.
La rinnovata attenzione allo spirituale e al religioso, che si esprime nella richiesta di
meditazione, porta dunque in sé possibilità contraddittorie. Può divenire via a
Dio, ma può anche smarrirsi in forme sbagliate. Per questi motivi è sembrata
opportuna alla Congregazione una parola di chiarificazione, perché la preghiera
è fede in atto: la preghiera senza fede diviene cieca, la fede senza preghiera
si disgrega. Nello stesso tempo stava a cuore alla Congregazione anche offrire
un aiuto ai numerosi gruppi di preghiera, che ovunque nel mondo si vanno
formando; così come agli ordini contemplativi e a quelli attivi e in definitiva
a tutti coloro che sono alla ricerca di una forma viva di preghiera.
Approfondendo la questione della corretta via della
meditazione si chiarisce nello stesso tempo la struttura antropologica della
fede cristiana. L’affermazione fondamentale del documento è molto semplice: la
meditazione cristiana non è un affondare in un’impersonale atmosfera del
divino, in un abisso senza volto e senza forma. Essa è per sua natura un
incontro fra due libertà: la libertà di Dio si incontra con la mia libertà, da
lui creata e interpellata. La struttura della preghiera e della fede cristiana è profondamente
personalistica: il mio lo incontra il Tu di Dio. Mentre le forme impersonali
della meditazione sono per loro essenza naturalistiche, considerano la libertà
come un peso, al quale mi sottraggo affondando nell’anonimo, la fede cristiana parte dal primato della libertà: Dio è libertà, e
perciò non annulla la libertà, ma la suscita nell’incontro dell’amore. Questo
significa però che la preghiera comporta sempre un esodo, un uscire da se
stessi, senza del quale l’amore non può realizzarsi. Il documento si richiama qui alla dottrina di
Agostino sui gradi della conversione. Essa esige come primo passo il
raccogliersi in se stessi, il guardare in se stessi. Ma la via della
conversione non può arrestarsi nel raccoglimento in se stessi; deve poi diventare
superamento dell’Io, non come dissolvimento di se stessi, ma come accesso all’alterità
di Dio, che mi libera da me stesso (n. 19).
Questo tratto personalistico di fondo della
dottrina cristiana su Dio e sull’uomo era una delle riscoperte entusiasmanti
della filosofia e della teologia dell’epoca fra le due guerre. Oggi ci siamo un
po’ stancati del personalismo, così come molti si sono stancati della libertà.
Non si vuole la perenne attestazione dell’«alterità», ma il suo superamento, la
liberazione dall’isolamento delle persone. Su questo problema il documento si
diffonde ampiamente; ciò che vi è di giusto in questa esigenza viene
chiaramente messo in luce.
L’incontro fra Dio e l’uomo non è semplicemente uno
stare di fronte del mio Io ad un Tu del suo stesso livello. II Tu di Dio è
trinitario, è esso stesso un circolo di amore, nel quale identità e alterità si
fondono pienamente. Incontrare Dio quindi significa: essere attirati all’interno del
circolo trinitario. Al riguardo il testo afferma: «Il Figlio è dall’eternità
"altro" rispetto al Padre... il fatto che ci sia un’alterità, non è
un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è
una sola natura in tre persone» (n. 14). Un angusto personalismo tuttavia si
rivela come insostenibile non solo a partire dall’immagine di Dio, che
trasforma la nostra idea dell’Io e dei Tu nella comunità trinitaria; esso si
trova superato anche a partire dal versante umano della storia della fede.
Infatti il Figlio è diventato uomo e dalla croce ci accoglie tutti nelle sue
braccia. Questo significa: noi diventiamo «trinitari» per il fatto che insieme
con il Figlio diventiamo un unico nuovo Io: io vivo, ma non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20). La risposta cristiana al problema della
liberazione dal carcere dell’io non vuol dire dunque: dissolvimento della
persona; vuoi dire piuttosto: amore, che nell’alterità crea la massima unità e
fa diventare l’essere altro la ricchezza dell’unità.
Di qui discendono due importantissime conseguenze.
La prima è questa: il criterio di validità della preghiera cristiana sta in
questo, che conduca all’amore, all’inscindibile amore di Dio e del prossimo. Mi
viene in mente a questo proposito una bellissima frase dalle Omelie su
Ezechiele di Gregorio Magno: «In tutta la Scrittura Dio ci parla solo per
questo, per attirarci all’amore di sé e del prossimo» (Lib. 1, hom. 10,
14). Questo è anche il criterio per giudicare di ogni meditazione e di ogni
esegesi della Scrittura. La meditazione cristiana non è un ripiegamento nell’intimo
e nel privato; ma in quanto addestramento all’esodo del superamento di se
stessi è via verso l’amore e ha pertanto una fondamentale dimensione sociale.
La seconda conseguenza è che la meditazione
cristiana è strettamente legata con la storia della salvezza e con la sua presenza
ecclesiale nei sacramenti. Infatti nessuno può riuscire, con la sola forza del
suo proprio «slancio», a cominciare a «vibrare» al ritmo trinitario. I nostri
tentativi non giungono fino a tanto. Ciò comporta l’umiltà di lasciarsi aiutare
da colui, che solo ci può aiutare, perché ha superato l’abisso: Gesù Cristo,
che in quanto Figlio è il Mediatore. La meditazione presuppone quindi la
comunione con Cristo attraverso il Battesimo e l’Eucaristia. Essa è allo stesso
tempo l’entrare personale in questo dominio che già ci è stato donato, è
sacramento nel suo adempiersi. La meditazione cristiana si colloca nella
storia, è «storica» e pertanto mai semplicemente «trascendentale»; storicità
tuttavia significa: collocarsi nella comunità storica della Chiesa e dei suoi
sacramenti. In ogni tempo è stata
grande la tentazione di considerare la storia della fede e con essa la
storia di Gesù Cristo ed i suoi sacramenti come un primo gradino per anime meno
illuminate, che poi in uno stadio più alto di spiritualizzazione si lascia
dietro di sé, per immergersi finalmente in un divino anonimo al di là di ogni
parola e di ogni concetto. La rinuncia a qualcuno che ci aiuti, del quale si
ritiene di non avere più bisogno nel gradino superiore, è in realtà una caduta
all’indietro: la persona affonda in se stessa, non va più al di là di se
stessa.
A partire da questi dati essenziali della fede
cristiana il documento può poi anche dare una risposta ad un problema pratico, che oggi viene
continuamente riproposto: in che misura si possono integrare metodi di
meditazione, che sono nati in religioni non cristiane (soprattutto dell’estremo
Oriente), nella preghiera cristiana e fino a che punto si possono spingere tali
sintesi? La risposta non deve necessariamente addentrarsi nel groviglio della
casistica; essa offre al singolo stesso il criterio a portata di mano. Può
essere accolto tutto e solo quello, che si lascia armonizzare con la struttura
fondamentale della preghiera cristiana: con il suo carattere personalistico e
storico e con la sua dimensione sociale, cioè con il suo essenziale
orientamento all’amore, al servizio quotidiano della vita cristiana in mezzo al
mondo. Ciò significa prima di tutto una limitazione di ogni psicotecnica:
nessuna tecnica può sostituire lo slancio della libertà, che si fa incontro a
Dio. L’elemento della libertà è insostituibile. Le tecniche si possono assumere
nella misura in cui sono di aiuto all’itinerario della libertà qui descritto.
In questo contesto il documento sottolinea la dimensione corporea della preghiera.
Anche il corpo prega. II processo interiore della preghiera si esprime nel
linguaggio dei gesti del corpo, e la disciplina del corpo a sua volta ha una
ripercussione sull’anima. Ma è importante rispettare le corrette correlazioni.
Attraverso determinate tecniche si possono produrre sensazioni di pace e di
distensione o anche fenomeni di luce e di calore (n. 28), che però non hanno
niente a che fare con l’incontro personale con Dio, con la vera unione mistica.
L’espressione corporea deve aver il suo fondamento dall’interno, e non viceversa.
È per questo che il documento si chiude anche con una proclamazione di libertà:
ogni preghiera ha il suo carattere individuale, perché ogni essere umano si
trova dinanzi a Dio personalmente con il suo nome. Ma proprio così egli si
dischiude all’altro.
[1]
Con l’espressione metodi
orientali, si intendono metodi ispirati all’Induismo e al Buddismo, come lo
«Zen» o la «Meditazione trascendentale» oppure lo «Yoga». Si tratta quindi di
metodi di meditazione dell’Estremo Oriente non cristiano che non di rado oggi
vengono adoperati anche da alcuni cristiani nella loro meditazione. Gli
orientamenti di principio e di metodo contenuti nel presente documento
intendono essere un punto di riferimento non solo in relazione a questo
problema, ma anche, più in generale, per le diverse forme di preghiera oggi
praticate nelle realtà ecclesiali, in particolar modo nelle Associazioni,
Movimenti e Gruppi.
[2]
Sul Libro dei Salmi nella
preghiera della Chiesa, cf Institutio generalis de Liturgia Horarum, nn. 100‑109.
[3]
Cf ad es. Es 15, Dt 32, 1 Sam 2, 2 Sam 22, taluni testi profetici, 1 Cr 16.
[4]
Costit. dogm. Dei Verbum,
n. 2. Questo documento
offre altre indicazioni sostanziose per una comprensione teologica e spirituale
della preghiera cristiana; si vedano, ad es., mi. 3, 5, 8, 21.
[5]
Costit. dogm. Dei Verbum,
n. 25.
[6]
Sulla preghiera di Gesù si veda Institutio generalis de Liturgia Horarum, nn. 3‑4.
[7]
Cf
Institutio generalis de Liturgia Horarum, n. 9.
[8]
La pseudognosi considerava
la materia come qualcosa di impuro, di degradato, che avvolgeva l’anima in una
ignoranza dalla quale la preghiera avrebbe dovuto liberarla per innalzarla alla
vera conoscenza superiore e quindi alla purezza. Certamente non tutti ne erano
capaci, ma solo gli uomini veramente spirituali; per i semplici credenti
bastavano la fede e l’osservanza dei comandamenti di Cristo.
[9]
I Messaliani furono già
denunciati da sant’Efrem Siro (Hymni contra Haereses 22, 4 ed. E. Beck CSCO 169, 1957, p. 79) e in seguito, tra
gli altri, da Epifanio di Salamina (Panarion, detto anche Adversus Haereses: PG 41, 156‑1200; PG 42, 9‑832) e Anfilochio,
Vescovo di Iconio (Contra haereticos: G. Ficker, Amphilochiana,
1,
Leipzig 1906, 21‑77).
[10]
Cf, ad es., san Giovanni
della Croce, Subida del Monte
Carmelo, II, cap. 7, 11.
[11]
Nel Medio Evo esistevano correnti estremistiche ai margini della Chiesa, che
vengono descritte, non senza ironia, da uno dei grandi contemplativi cristiani,
il fiammingo Jan van Ruysbroek. Egli distingue nella vita mistica tre tipi di
deviazione (Die gheestelike Brulochi 228, 12‑230, 17; 230, 18232, 22; 232, 23‑236, 6) e riporta anche una
critica generale riguardante queste forme (236, 7‑237, 29). Tecniche simili
sono state successivamente individuate e respinte
da santa Teresa di Gesù la quale osserva acutamente che la stessa cura che si
mette a non pensare a nulla sveglierà l’intelletto a pensare molto. e che
lasciare da parte il mistero di Cristo nella meditazione cristiana è sempre una
specie di «tradimento» (si veda: Santa Teresa di Gesù, Vida 12, 5 e 22, 1‑5).
[12]
Additando a tutta la Chiesa
l’esempio e la dottrina di santa Teresa di Gesù, che a suo tempo dovette
respingere la tentazione di certi metodi che invitavano a prescindere
dall’umanità di Cristo a vantaggio di un vago immergersi nell’abisso della
divinità, Papa Giovanni Paolo II diceva in un’omelia dell’1‑11‑1982 che il
grido di Teresa di Gesù in favore di una preghiera tutta centrata in Cristo «è
valido anche ai nostri giorni contro alcuni metodi di orazione che non si ispirano
al Vangelo e che in pratica tendono a prescindere da Cristo, a vantaggio di un
vuoto mentale che nel cristianesimo non
ha senso. Ogni metodo di orazione è valido in quanto si ispira a Cristo e
conduce a Cristo, la Via, la Verità e la Vita (cf Gv 14,6)». Si veda: Homilia Abulae in honorem Sanctae Teresiae:
AAS 75, 1983, 256‑25.
[13]
Si veda ad esempio «La nube
della non‑conoscenza», opera spirituale di un anonimo scrittore inglese del
sec. XIV.
[14]
Il concetto di «nirvana»
viene inteso nei testi religiosi del buddismo come uno stato di quiete che
consiste nell’estinzione di ogni realtà concreta in quanto transitoria, e
quindi deludente e dolorosa.
[15]
Maestro Eckhart parla d’una
immersione «nell’abisso indeterminato della divinità», che è «una tenebra nella
quale la luce della Trinità non è mai rifulsa». Cf Sermo «Ave gratia piena» in fine (J. Quint, Deutsche Predigten und Traktate, Hanser 1955, 261).
[16]
Cf Costit. past. Gaudium et
spes, n. 19, 1: «La
ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla
comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio:
non esiste, infatti, se non perché creato per amore da Dio, da Lui sempre per
amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non Lo riconosce
liberamente e se non si affida al suo Creatore».
[17]
Come scrive san Tommaso a
proposito dell’eucaristia: «...proprius effectus huius sacramenti est conversio
hominis in Christum, ut dicat cum Apostolo: Vivo ego, iam non ego; vivit vero
in me Christus (Gal 2,20)» (In IV Sent., d. 12 q. 2 a. 1).
[18]
Dich.
Nostra aetate, n. 2.
[19]
Sant’Ignazio di Loyola, Ejercicios
espirituales, n. 23 e passim.
[20]
Cf Col 3,5; Rm 6,11ss; Gal
5,24.
[21]
Sant’Agostino, Enarrationes
in Psalmos XLI, 8: PL 36, 469.
[22]
Sant’Agostino, Confessiones
3, 6, 11: PL 32, 688. Cf De vera
Religione 39, 72: PL 34, 154.
[23]
Il senso cristiano positivo
dello «svuotamento» delle creature risplende in maniera esemplare nel Poverello
d’Assisi. San Francesco, proprio perché ha rinunciato alle creature per amore
del Signore, le vede tutte riempite della sua presenza e fulgenti nella loro
dignità di creature di Dio e ne intona la segreta melodia dell’essere nel suo
Cantico delle Creature (cf C. Esser, Opuscula
Sancti Patris Francisci Assisiensis, Ed. Ad Claras aquas, Grottaferrata [Roma] 1978, pp. 83‑86). Nello
stesso senso scrive nella «Lettera a tutti i fedeli»: «Ogni creatura che è in
cielo e in terra e nel mare e nella profondità degli abissi (Ap 5,13), renda a
Dio lode, gloria e onore e benedizione, poiché egli è la nostra vita e la
nostra forza. Egli che solo è buono (Lc 18,19), che solo è altissimo, che solo
è onnipotente e ammirabile, glorioso e santo, degno di lode e benedetto per gli
infiniti secoli dei secoli. Amen» (Opuscula...
124).
San
Bonaventura fa notare come in ciascuna creatura Francesco percepiva il richiamo
di Dio ed effondeva la sua anima nel grande inno della riconoscenza e della
lode (cf Legenda S. Francisci, cap.
9, n. 1, Opera omnia, ed. Quaracchi
1898, Vol. VIII, p. 530).
[24]
Si vedano, ad esempio, San
Giustino, Apologia I, 61, 12‑13: PG
6, 420‑421; Clemente Alessandrino, Paedagogus
1,6,25‑31: PG 8, 281‑284; San Basilio di Cesarea, Homiliae diversae, 13, 1:
PG 31, 424‑425; San Gregorio Nazianzeno, Orationes,
40, 3, 1: PG 36, 361.
[25] Costit. dogm. Dei
Verbum, n. 8.
[26]
L’eucaristia definita dalla
Costituzione dogmatica Lumen gentium «fonte e apice di tutta la vita
cristiana» (LG 11) ci fa «partecipare realmente al corpo del Signore» (LG 7);
in essa «siamo elevati alla comunione con Lui» (LG 7).
[27]
Cf Santa Teresa di Gesù, Castillo Interior IV, 1, 2.
[28]
Nessun orante, senza una
grazia speciale, ambirà a una visione globale della rivelazione di Dio quale
san Gregorio Magno riconosce in san Benedetto, oppure a quello slancio mistico
con cui san Francesco di Assisi contemplava Dio in tutte le sue creature, o ad
una visione ugualmente globale, come quella donata a sant’Ignazio al fiume
Cardoner e della quale egli afferma che in fondo avrebbe potuto prendere per
lui il posto della Sacra Scrittura. La notte oscura. descritta da san Giovanni
della Croce, è parte del suo personale carisma di orazione: ogni membro del suo
ordine non ha bisogno di viverla nello stesso modo per arrivare a quella
perfezione nella preghiera cui è chiamato da Dio.
[29]
La chiamata del cristiano a esperienze ‘mistiche» può includere tanto ciò che san Tommaso
qualifica come esperienza viva di Dio attraverso i doni dello Spirito, quanto
le forme inimitabili (e quindi alle quali non si deve aspirare) di donazione
della grazia. Cf San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia IIae, a. 1 c, come pure a. 5, ad 1.
[30]
Si vedano, ad esempio, gli
scrittori antichi, che parlano dell’atteggiamento dell’orante assunto dai
cristiani in preghiera: Tertulliano, De oratione XIV: PL 1, 1170, XVII: PL 1, 1174‑1176; Origene, De oratione XXXI, 2: PG 11, 550‑553; nonché del significato di tal gesto: Barnaba, Epistula XII, 2‑4: PG 2, 760‑761; San Giustino, Dialogus 90, 45: PG 6, 689‑692; Sant’Ippolito Romano, Commentarium in Dan. III, 24: GCS I, 168, 8‑17;
Origene, Homiliae in Ex. XI, 4: PG 12, 377‑378. Sulla posizione del corpo si veda anche Origene, De oratione XXXI, 3: PG 11, 553‑555.
[31]
Cf Sant’Ignazio di Loyola, Ejercicios
espirituales, n. 76.
[32]
Come ad esempio quella degli
anacoreti esicasti. L’hesychia o quiete, esterna ed interna, viene considerata
dagli anacoreti una condizione della preghiera; nella sua forma orientale è
caratterizzata da solitudine e da tecniche di raccoglimento.
[33]
L’esercizio della »preghiera
di Gesù», che consiste nel ripetere una formula densa di riferimenti biblici di
invocazione e supplica (ad es. «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà
di me»), si adatta al ritmo respiratorio naturale. A questo proposito si veda:
Sant’Ignazio di Loyola, Ejercicios espirituales, n. 258.
[34]
Cf 1 Ts 5,17. Si veda
d’altra parte 2 Ts 3,8‑12. Da questi ed altri testi sorge la problematica: come
conciliare l’obbligo della preghiera continua con quello del lavoro? Si vedano,
tra altri, sant’Agostino, Epistula
130, 20: PL 33, 501‑502 e san Giovanni Cassiano, De institutis coenobiorum III, 1‑3: SC 109, 92‑93. Si legga anche
la «Dimostrazione sulla preghiera» di Afraate, il primo padre della Chiesa
siriaca, e in particolare i numeri 14‑15 dedicati alle cosiddette «opere della
preghiera» (cf l’edizione di J. Parisot, Afraatis
Sapientis Persae Demonstrationes, IV: PS 1, pp. 170‑174).
[35]
Cf Santa Teresa di Gesù, Castillo Interior VII, 4, 6.
[36]
Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos CXLII, 6: PL 37, 1849. Si veda anche:
Sant’Agostino, Tract. in
Joh. IV, 9: PL 35, 1410:
«Quando autem
nec ad hoc dignum se dicit, vere plenus Spiritu Sancto erat, qui sic servus
Dominum agnovit, et ex servo amicus fieri meruit».