Mi
propongo, con questa riflessione, di soffermarmi con voi su alcuni temi
che riguardano lo spirito della liturgia. Mi propongo molto, mi
verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della
liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema
hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo
spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri:
Romano Guardini e Joseph Ratzinger.
D’altra
parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai
necessario, soprattutto tra noi sacerdoti. Anche perché è urgente
riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente
nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità
con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio
Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”.
E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto
autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della
vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei
propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe
essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una
Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del
corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia
entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non
l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e
cancellato?
Eppure,
a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto
definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta
applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede
autentica.
Frutto
di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione
tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere
legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in
questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe
più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra
– quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal
Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato.
Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il
nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente
comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa.
Quanto
affermato fin qui a proposito della “continuità” ha a che fare con il
tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi
può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad
essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che
prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra
chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in
ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a
guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un
patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con
gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno
spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto
delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta
all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata
dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi
contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito
della liturgia è la liturgia dello Spirito.
Riguardo
al tema proposto non pretendo di essere esauriente. Non pretendo,
neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una
panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni
aspetti dell’essenza della liturgia, con riferimento specifico alla
Celebrazione Eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come
ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a
Benedetto XVI: un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il
suo insegnamento, sia attraverso l’esempio del suo celebrare.
E
se, nel considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, mi
troverò ad annotare qualche comportamento che ritengo non del tutto in
sintonia con l’autentico spirito liturgico, lo farò solo per offrire un
piccolo contributo perché tale spirito possa risaltare ancor di più in
tutta la sua bellezza e verità.
1. La sacra liturgia, un grande dono di Dio alla Chiesa
Come
ben sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero documento,
il primo in ordine di pubblicazione, alla liturgia. Il suo nome è
“Sacrosanctum concilium” ed è definito come la Costituzione sulla sacra
liturgia.
E’
il termine sacro che intendo sottolineare, in quanto affiancato a
“liturgia”. Al riguardo, non si tratta di un caso né di un dato di poca
importanza. In tal modo, infatti, i Padri conciliari hanno inteso dare
forza al carattere sacro della liturgia.
Ma
che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di
dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è
lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si
tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo,
consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in
ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una
realtà, dunque, che ci supera, da accogliere in dono e dalla quale
lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni
celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo
corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)
Ponendosi
in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni
modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A
volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è
arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della
Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai
bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere,
aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività
e dell’emotività. E in questo noi sacerdoti abbiamo una grande
responsabilità.
Ecco,
in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è
bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga
spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto
della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi
liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il
risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone
abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa
incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in
dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E
allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo
poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è
riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua
non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una
creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite
noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa
la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è
la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che
concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e
risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).
Affermare,
dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che
essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove
di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in
cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e
sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte
di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi
trovare di Dio nel nostro mondo.
Una
forma di adattamento alle situazioni particolari è prevista ed è bene
che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma
in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. Il motivo è
importante ed è bene riaffermarlo: la liturgia è dono che ci precede,
tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della
Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed
espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità
soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a
disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani. “Anche nei nostri
tempi – ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia
– l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e
valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale,
resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia” (n. 52).
Nella
stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella
“Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto
pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del
capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia
la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione
sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana
spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare
in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e
attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della
propria fede?
C’è
un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù
di tale diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è
semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è
opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita
nuova.
Mi
dilungo ancor un momento su questo tema che, posso testimoniare, sta
tanto a cuore al Papa, riascoltando con voi un brano di “Sacramentum
caritatis”, l’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, successiva al
Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi
– afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle
norme liturgiche… La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i
sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a
fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme… Nelle
comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il
loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi
in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e
il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia”
(40).
2. L’orientamento della preghiera liturgica
Al
di là dei cambiamenti che storicamente hanno caratterizzato la
disposizione architettonica delle chiese e degli spazi liturgici, una
convinzione è rimasta sempre chiara all’interno della comunità
cristiana, quasi fino ai giorni nostri. Mi riferisco alla preghiera
rivolta a oriente, tradizione che risale alle origini del cristianesimo.
Che
cosa si intende con “preghiera rivolta a oriente”? Si intende
l’orientamento del cuore orante a Cristo, Colui dal quale proviene la
salvezza e al quale si tende come al Principio e al Fine della storia. A
est sorge il sole e il sole è simbolo di Cristo, la Luce che sorge
dall’oriente. Si ricordi, in proposito, il passo del cantico messianico
del “Benedictus”: “…per cui verrà a visitarci dall’alto come sole che
sorge”.
Studi
molto seri e anche recentissimi hanno ormai dimostrato che, in ogni
tempo della sua storia, la comunità cristiana ha trovato il modo di
esprimere anche nel segno liturgico, esterno e visibile, questo
orientamento fondamentale per la vita della fede. Così troviamo le
chiese costruite in modo tale che l’abside fosse rivolta verso oriente.
Quando non fu più possibile un tale orientamento nella edificazione del
luogo sacro, si fece ricorso al grande crocifisso posto sopra l’altare e
a cui tutti potessero rivolgere lo sguardo. Si pensi, ancora, alle
absidi decorate con splendide raffigurazioni del Signore, verso le quali
tutti erano invitati ad alzare gli occhi al momento della Liturgia
Eucaristica.
Senza
entrare nel dettaglio di un percorso storico che ci porrebbe
all’interno di una riflessione riguardante lo sviluppo dell’arte
cristiana, in questo contesto ci interessa affermare che la preghiera
orientata, ovvero rivolta al Signore, è espressione tipica
dell’autentico spirito liturgico. In questo senso, come ben ci ricorda
il dialogo introduttivo del Prefazio, al momento della Liturgia
Eucaristica siamo invitati a rivolgere il cuore al Signore: “In alto i
nostri cuori”, esorta il sacerdote, e tutti rispondono: “Sono rivolti al
Signore”. Ora, se tale orientamento deve essere sempre interiormente
adottato dall’intera comunità cristiana raccolta in preghiera, esso deve
poter trovare espressione anche nel segno esteriore. Il segno
esteriore, infatti, non può che essere vero, così che in esso si renda
manifesto il corretto atteggiamento spirituale.
Ecco,
allora, il motivo della proposta fatta a suo tempo dal card. Ratzinger e
ora riaffermata nel corso del suo pontificato, di collocare il
crocifisso al centro dell’altare, in modo tale che tutti, al momento
della Liturgia Eucaristica, possano effettivamente guardare al Signore,
orientando così la loro preghiera e il loro cuore. Ascoltiamo
direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume
della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e
popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo
nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica.
Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso
l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione:
o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove
questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso
una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto
nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1).
Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta
da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera
[Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a
nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro
dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli,
per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme
preghiamo”.
E
non si dica che l’immagine del crocifisso viene a oscurare la vista dei
fedeli in rapporto al celebrante. I fedeli non devono guardare al
celebrante, in quel momento liturgico! Devono guardare al Signore! Come
al Signore deve poter guardare anche colui che presiede la celebrazione.
La croce non impedisce la vista; anzi, le apre l’orizzonte sul mondo di
Dio, la porta a contemplare il mistero, la introduce in quel Cielo da
cui proviene l’unica luce capace di dare senso alla vita di questa
terra. La vista, in verità, rimarrebbe oscurata, impedita se gli occhi
rimanessero fissi su ciò che è solo presenza dell’uomo e opera sua.
Così
si comprende perché è ancora oggi possibile celebrare la Messa agli
altari antichi, quando le particolari caratteristiche architettoniche e
artistiche delle nostre chiese lo dovessero consigliare. Il Santo Padre
ci dona anche in questo l’esempio quando celebra l’Eucaristia all’altare
antico nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore.
Nel
nostro tempo è entrata nel linguaggio abituale l’espressione
“celebrazione verso il popolo”. Se con tale espressione si intende
descrivere l’aspetto topografico, dovuto al fatto che oggi, il
sacerdote, a motivo della collocazione dell’altare, si trova spesso in
posizione frontale rispetto all’assemblea, la si può accettare. Ma non
la si potrebbe assolutamente accettare nel momento in cui venisse ad
avere un contenuto teologico. Infatti, la Messa, teologicamente
parlando, è sempre rivolta a Dio attraverso Cristo Signore e sarebbe un
grave errore immaginare che l’orientamento principale dell’azione
sacrificale fosse la comunità. Tale orientamento, dunque - quello al
Signore –, deve animare l’interiore partecipazione liturgica di
ciascuno. Ed è altrettanto importante che possa essere ben visibile
anche nel segno liturgico.
3. L’adorazione e l’unione con Dio
L’adorazione
è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico –
perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della
grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore
senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria
onnipotente e provvidente. L’adorazione conduce, di conseguenza, alla
riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo
stato di separazione, di apparante autonomia, alla perdita di se stessi
che è, poi, l’unico modo di ritrovarsi.
Di
fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma
nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova
nella liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per
noi che rimanere in adorazione. “C’è, nell’evento pasquale e
nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, - afferma Giovanni Paolo
II nella Ecclesia de Eucharistia - una capienza davvero enorme,
nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grande
redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta
nella celebrazione eucaristica” (n. 5).
“Mio
Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento
della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione
dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e
vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il
nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo
ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla
luce del quale vivere e morire.
Ecco
perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della
bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio:
la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del
Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le
suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso.
Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di
Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” del 2008, ha iniziato a
distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e
in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere
manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del
mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di
adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS.
Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.
Mi
piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica
Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi
passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del
SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione
allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il
Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per
essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della
Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già
Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima
adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti,
il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione
eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica,
la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa.
Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione
verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una
cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la
bellezza della liturgia celeste” (n.66).
Penso
che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio
del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il
più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia,
afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio
diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù,
partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est,
n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella
Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello
svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la
Chiesa fa del Suo Signore.
Considerare
la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non
significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione
liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al
contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in
Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire
un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo
quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai
nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna.
“L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai
quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso
appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o
diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui,
e così anche verso l'unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14)
4. La partecipazione attiva
Proprio
loro, i santi, hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico
partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la
testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla
liturgia della Chiesa.
Giustamente,
dunque, e anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito
tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei
fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha
ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole
indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti
successivi del magistero fino ai nostri giorni.
Tuttavia,
non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione
attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si
partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della
celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si
partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della
Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa
attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri
nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione
veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della
salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora
il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso
ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della
grazia dell’atto liturgico.
A
riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il
Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione
allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa
partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa
espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato
esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse
di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone
possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia,
però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se,
dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di
tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere
parte tutti i membri della comunità. Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.
Così,
la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso,
la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra
l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra
azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre
l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne
trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di
conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il
nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco
perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile
partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium:
“Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano
come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che,
comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino
all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati
dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore;
rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto
per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se
stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano
perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia
finalmente tutto in tutti” (n. 48).
Rispetto
a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare,
alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto
durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco ad esse, perché se
diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un
generico agire, allora si è frainteso l’autentico spirito della
liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può
consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività
esteriori, ma nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di
Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere,
coinvolgere e trasformare. E non si confonda il compimento di gesti
esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto
liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del
gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la Liturgia chiede molto
di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato
impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto
XVI chiama “coerenza eucaristica”. E’ proprio l’esercizio puntuale e
fedele di tale coerenza l’espressione più autentica della partecipazione
anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.
Aggiungo
ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione
attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito
comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere
anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del
cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato
alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia
appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e
gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che
introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione,
anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?
5. La musica sacra o liturgica
In
effetti, per introdursi in modo autentico nella spirito della liturgia
non si può prescindere dal discorso sulla musica sacra o liturgica.
Mi
permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si
potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o
meno recenti, insista nell’indicare un certo tipo di musica e di canto
come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica. Già il
Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in
atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l’aderenza alla parola è
prioritaria, limitando l’uso degli strumenti e indicando una chiara
differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti,
non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è
ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma
del canto. In epoca più recente, il Papa San Pio X fece un intervento
analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e
indicando il canto gregoriano e la polifonia dell’epoca del rinnovamento
cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla
musica religiosa in generale. Il Concilio Vaticano II non ha fatto che
ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi
magisteriali.
Perché,
dunque, l’insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche
tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano
distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come
la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali
esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica
liturgica, anche popolare?
La
risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato di
affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle
forme musicali - nella loro santità, bontà e universalità - a tradurre
in note, in melodia e in canto l’autentico spirito liturgico:
indirizzando all’adorazione del mistero celebrato, diventando esegesi
musicata della Parola di Dio, favorendo un’autentica e integrale
partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato
essenziale dell’agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo
musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione
del suo mistero.
Mi
sia permessa un’ultima citazione di J. Ratzinger: “Gandhi evidenzia tre
spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali
comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e
tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio
vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra
il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre:
egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e
l'altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il
tacere, il gridare il cantare. Oggi… vediamo che all'uomo privo di
trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e
cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del
mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli
restituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il
cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare,
l'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui
quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la
vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera
dall'agire comune e ci restituisce la profondità e l'altezza, il
silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è
cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa
tace con la profondità dell'universo in attesa. E così essa redime la
terra” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 153-154)
Concludo.
E’ ormai da alcuni anni che nella Chiesa, a più voci, si parla della
necessità di un nuovo rinnovamento liturgico. Di un movimento, in
qualche modo analogo a quello che pose le basi per la riforma promossa
dal Concilio Vaticano II, che sia capace di operare una riforma della
riforma, ovvero ancora un passo avanti nella comprensione dell’autentico
spirito liturgico e della sua celebrazione: portando così a compimento
quella riforma provvidenziale della liturgia che i Padri conciliari
avevano avviato, ma che non sempre, nell’attuazione pratica, ha trovato
puntuale e felice realizzazione.
Non
c’è dubbio che in questo nuovo rinnovamento liturgico siamo proprio noi
sacerdoti a ricoprire un ruolo determinante. Possa, con l’aiuto del
Signore e di Maria Madre dei sacerdoti, l’ulteriore sviluppo della
riforma essere anche il frutto del nostro amore sincero per la liturgia,
nella fedeltà alla Chiesa e al Papa.
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie