Preti convertiti e convinti
di Mauro Piacenza
Nei racconti delle apparizioni del Risorto colpisce sempre il legame tra effusione dello Spirito e annuncio, Pentecoste e missione. Il sacerdote, come ci ha efficacemente ricordato Papa Francesco, non riceve lo Spirito, l'unzione, per se stesso, ma per ungere il popolo. Il dono dello Spirito, ricevuto nel giorno della nostra ordinazione, non è premessa della missione, ma è esso stesso la missione. Nella misura in cui si rinnova il dono della fede, nella chiarezza di una ecclesiale appartenenza, nella misura in cui ciascun sacerdote, sempre e continuamente, si converte a Dio, la missione diviene straordinariamente dinamica e portatrice di imprevisti frutti. Solo chi ha una reale, profonda cura della propria fede, chi è realmente, davvero convertito, può farsi carico della fede altrui. La missione può essere compresa proprio in questo modo: noi siamo uomini di fede, che, non per mera filantropia, né per migliorare il mondo, ma per divino, soprannaturale mandato, accompagniamo e sosteniamo la fede dei nostri fratelli e delle nostre sorelle nell'unico Signore Gesù e nella santa Chiesa, che di lui, in lui e per lui vive. In un contesto, dove l'individualismo la fa da padrone e dove nessuno sembra più capace di prendersi cura di alcuno, la rilevanza di una tale vocazione può essere straordinariamente efficace. Essendo quello religioso il fattore straordinariamente sintetico della personalità umana e della stessa vita, prendendoci cura della fede delle persone, inevitabilmente ci prendiamo cura di tutto ciò che riguarda i nostri fratelli. In questo senso, non c'è alcuna precedenza, come taluni potevano pensare nei decenni passati, tra promozione umana ed evangelizzazione, ma la più grande evangelizzazione è anche, necessariamente, promozione umana, e il concetto stesso di promozione umana sarebbe impensabile, se Dio non avesse “mosso” l'umanità, facendosi egli stesso uomo. Convertirsi nell'Anno della fede significa, allora, vivere un'intensa passione per la fede dei nostri fratelli, nella docilità al mandato ecclesiale e nella consapevolezza che gli strumenti, per sostenere tale opera, non sono, in alcun caso, arbitrariamente stabiliti e scelti da noi, ma donati da Dio e resi attuali e operanti dallo Spirito Santo. Ciò che è straordinariamente sorprendente, in tale contesto, è la imprescindibile, mutua relazionalità tra conversione personale e missione. Possiamo tutti testimoniare di aver personalmente sperimentato come il popolo a noi affidato guardi, con particolare interesse, alla nostra fede e ne possa essere autenticamente edificato. Allo stesso modo, non è difficile riconoscere come il vivere la missione e l'essere realmente al servizio della fede dei fratelli sia, non raramente, motivo e causa seconda della nostra rinnovata conversione a Dio. Quante volte la confessione del più semplice dei penitenti, il candore del più piccolo dei bambini, o l'offerta consapevole della sofferenza dei malati, il sensus Ecclesiae di tante povere persone semplici, ci colpiscono, ci chiamano a conversione e ci fanno toccare Dio. Il ministero, che ci è stato affidato, è quanto di più straordinario possa essere dato di vivere a un uomo nel breve tratto umano della terrena esistenza, poiché, costantemente, grazie proprio al fedele esercizio del nostro ministero, possiamo contemplare le opere di Dio, che chiama, converte, plasma e santifica le anime. E contemplare le opere di Dio, il suo reale agire nel mondo, significa contemplare Dio stesso; significa annunciare non un'idea, o un precetto, ma colui che i nostri occhi hanno visto, che i nostri orecchi hanno udito, che le nostre mani hanno toccato: il Verbo della vita. Anche solo dal punto di vista della gratificazione umana che ne deriva, l'accompagnamento della fede e nella fede, verso i fratelli, è opera straordinariamente alta e nobile. Se aggiungiamo, poi, che questo è compiuto nel nome e per mandato esplicito del Signore del cielo e della terra, del Risorto, del Salvatore e Sacerdote eterno, ecco che l'Anno della fede diviene occasione di profonda conversione da uno sguardo solo umano, troppo umano, sulle nostre realtà ecclesiali, a uno sguardo davvero realista, cioè soprannaturale e, perciò, sempre nuovo, misericordioso e autenticamente pastorale. Prendersi cura della fede altrui, allora, non sfianca la nostra fede, ma la irrobustisce. Non è da interpretare come una sequenza di atti, ma l'atto stesso di curare la fede dei fratelli incrementa la nostra fede e la nostra conversione; e la nostra conversione è il primo alimento della fede dei fratelli. Se un cristiano non convertito può dare scandalo, quanto più radicale e nefasto è lo scandalo di un sacerdote non convertito. È sempre necessario tenere insieme, come richiama il motuproprio Porta fidei di Benedetto XVI, con il quale è stato indetto l'Anno della fede, le due dimensioni “cognitiva” e “oblativa” della fede, la fede come conoscenza e la fede come abbandono. Le varie epoche storiche e le differenti influenze culturali possono vedere un certo prevalere ora dell'una, ora dell'altra dimensione, ma la saggezza della Chiesa e la reale conversione di un sacerdote le tiene sempre, graniticamente unite. Che sciagura sarebbe un sacerdote convinto, ma non convertito, che aderisse al cristianesimo come ad una delle umane ideologie. E che disorientamento sarebbe, per se stesso e per gli altri, un sacerdote convertito, ma non convinto, che non abbia fatto sue, interiorizzato autenticamente e amato profondamente le ragioni della fede e la stessa immedesimazione con Cristo. Oggi più che mai, in un contesto così gravemente secolarizzato come quello occidentale, essere missionari, prendersi cura della fede altrui significa, innanzitutto, essere autenticamente convertiti e, quindi, convinti. Nello stesso tempo, significa accompagnare tutte le persone a noi affidate a compiere, sia personalmente, sia nella comunità ecclesiale, quella indispensabile sintesi tra fede come conoscenza e fede come abbandono, senza la quale non c'è reale esperienza cristiana. Dobbiamo sempre ricordare che, per il mandato divino ricevuto, i buoni e il popolo ci guardano come esempio, attendendosi da noi una parola certa, una testimonianza cristallina e una paternità capace di accompagnare. Questa paternità si impara alla scuola di una Madre: la Beata Vergine Maria.
(©L'Osservatore Romano 29 maggio 2013)
di Mauro Piacenza
Nei racconti delle apparizioni del Risorto colpisce sempre il legame tra effusione dello Spirito e annuncio, Pentecoste e missione. Il sacerdote, come ci ha efficacemente ricordato Papa Francesco, non riceve lo Spirito, l'unzione, per se stesso, ma per ungere il popolo. Il dono dello Spirito, ricevuto nel giorno della nostra ordinazione, non è premessa della missione, ma è esso stesso la missione. Nella misura in cui si rinnova il dono della fede, nella chiarezza di una ecclesiale appartenenza, nella misura in cui ciascun sacerdote, sempre e continuamente, si converte a Dio, la missione diviene straordinariamente dinamica e portatrice di imprevisti frutti. Solo chi ha una reale, profonda cura della propria fede, chi è realmente, davvero convertito, può farsi carico della fede altrui. La missione può essere compresa proprio in questo modo: noi siamo uomini di fede, che, non per mera filantropia, né per migliorare il mondo, ma per divino, soprannaturale mandato, accompagniamo e sosteniamo la fede dei nostri fratelli e delle nostre sorelle nell'unico Signore Gesù e nella santa Chiesa, che di lui, in lui e per lui vive. In un contesto, dove l'individualismo la fa da padrone e dove nessuno sembra più capace di prendersi cura di alcuno, la rilevanza di una tale vocazione può essere straordinariamente efficace. Essendo quello religioso il fattore straordinariamente sintetico della personalità umana e della stessa vita, prendendoci cura della fede delle persone, inevitabilmente ci prendiamo cura di tutto ciò che riguarda i nostri fratelli. In questo senso, non c'è alcuna precedenza, come taluni potevano pensare nei decenni passati, tra promozione umana ed evangelizzazione, ma la più grande evangelizzazione è anche, necessariamente, promozione umana, e il concetto stesso di promozione umana sarebbe impensabile, se Dio non avesse “mosso” l'umanità, facendosi egli stesso uomo. Convertirsi nell'Anno della fede significa, allora, vivere un'intensa passione per la fede dei nostri fratelli, nella docilità al mandato ecclesiale e nella consapevolezza che gli strumenti, per sostenere tale opera, non sono, in alcun caso, arbitrariamente stabiliti e scelti da noi, ma donati da Dio e resi attuali e operanti dallo Spirito Santo. Ciò che è straordinariamente sorprendente, in tale contesto, è la imprescindibile, mutua relazionalità tra conversione personale e missione. Possiamo tutti testimoniare di aver personalmente sperimentato come il popolo a noi affidato guardi, con particolare interesse, alla nostra fede e ne possa essere autenticamente edificato. Allo stesso modo, non è difficile riconoscere come il vivere la missione e l'essere realmente al servizio della fede dei fratelli sia, non raramente, motivo e causa seconda della nostra rinnovata conversione a Dio. Quante volte la confessione del più semplice dei penitenti, il candore del più piccolo dei bambini, o l'offerta consapevole della sofferenza dei malati, il sensus Ecclesiae di tante povere persone semplici, ci colpiscono, ci chiamano a conversione e ci fanno toccare Dio. Il ministero, che ci è stato affidato, è quanto di più straordinario possa essere dato di vivere a un uomo nel breve tratto umano della terrena esistenza, poiché, costantemente, grazie proprio al fedele esercizio del nostro ministero, possiamo contemplare le opere di Dio, che chiama, converte, plasma e santifica le anime. E contemplare le opere di Dio, il suo reale agire nel mondo, significa contemplare Dio stesso; significa annunciare non un'idea, o un precetto, ma colui che i nostri occhi hanno visto, che i nostri orecchi hanno udito, che le nostre mani hanno toccato: il Verbo della vita. Anche solo dal punto di vista della gratificazione umana che ne deriva, l'accompagnamento della fede e nella fede, verso i fratelli, è opera straordinariamente alta e nobile. Se aggiungiamo, poi, che questo è compiuto nel nome e per mandato esplicito del Signore del cielo e della terra, del Risorto, del Salvatore e Sacerdote eterno, ecco che l'Anno della fede diviene occasione di profonda conversione da uno sguardo solo umano, troppo umano, sulle nostre realtà ecclesiali, a uno sguardo davvero realista, cioè soprannaturale e, perciò, sempre nuovo, misericordioso e autenticamente pastorale. Prendersi cura della fede altrui, allora, non sfianca la nostra fede, ma la irrobustisce. Non è da interpretare come una sequenza di atti, ma l'atto stesso di curare la fede dei fratelli incrementa la nostra fede e la nostra conversione; e la nostra conversione è il primo alimento della fede dei fratelli. Se un cristiano non convertito può dare scandalo, quanto più radicale e nefasto è lo scandalo di un sacerdote non convertito. È sempre necessario tenere insieme, come richiama il motuproprio Porta fidei di Benedetto XVI, con il quale è stato indetto l'Anno della fede, le due dimensioni “cognitiva” e “oblativa” della fede, la fede come conoscenza e la fede come abbandono. Le varie epoche storiche e le differenti influenze culturali possono vedere un certo prevalere ora dell'una, ora dell'altra dimensione, ma la saggezza della Chiesa e la reale conversione di un sacerdote le tiene sempre, graniticamente unite. Che sciagura sarebbe un sacerdote convinto, ma non convertito, che aderisse al cristianesimo come ad una delle umane ideologie. E che disorientamento sarebbe, per se stesso e per gli altri, un sacerdote convertito, ma non convinto, che non abbia fatto sue, interiorizzato autenticamente e amato profondamente le ragioni della fede e la stessa immedesimazione con Cristo. Oggi più che mai, in un contesto così gravemente secolarizzato come quello occidentale, essere missionari, prendersi cura della fede altrui significa, innanzitutto, essere autenticamente convertiti e, quindi, convinti. Nello stesso tempo, significa accompagnare tutte le persone a noi affidate a compiere, sia personalmente, sia nella comunità ecclesiale, quella indispensabile sintesi tra fede come conoscenza e fede come abbandono, senza la quale non c'è reale esperienza cristiana. Dobbiamo sempre ricordare che, per il mandato divino ricevuto, i buoni e il popolo ci guardano come esempio, attendendosi da noi una parola certa, una testimonianza cristallina e una paternità capace di accompagnare. Questa paternità si impara alla scuola di una Madre: la Beata Vergine Maria.
(©L'Osservatore Romano 29 maggio 2013)