«Essere Chiesa nell’epoca moderna:
il
contributo del Concilio Ecumenico Vaticano II»
Eccellentissimo
Patriarca,
Magnifico
Preside,
Chiarissimi
Professori,
Gentili Signore
ed Egregi Signori,
Carissimi
Studenti,
Il tema del rapporto tra Chiesa e
modernità é uno dei più dibattuti e, probabilmente, irrisolti della nostra epoca.
Esso pare continuamente polarizzato tra la tentazione, sempre possibile, di una
"diluizione" del credo ecclesiale nella modernità, da un lato, e la contrapposizione, talvolta fino al rifiuto,
dall'altro. Entrambe le "polarizzazioni" possono trovare giustificazioni
e puntelli, ma restano ultimamente delle "non-risposte"
all'importante questione.
Dal punto di vista metodologico, ritengo
necessario sottolineare tre premesse. La prima é universale e
riguarda ogni processo investigativo che voglia essere realmente tale. In
un'indagine scientifica, non é mai possibile giungere ad una conoscenza
autentica, eliminando uno dei fattori implicati.
Questo semplicissimo assioma gnoseologico,
suggerisce come sia illegittimo, anche nel rapporto tra Chiesa e modernità,
pretendere di risolvere i problemi, "eliminando" uno dei fattori in
gioco: la modernità c'é e la Chiesa non può eliminarla, né può far finta che
non esista, ricercando nostalgicamente un passato, nel quale il dialogo con la
cultura appariva più semplice e fruttuoso. Simmetricamente - e questo mi pare
un elemento essenziale, forse poco sottolineato - la Chiesa c'é, esiste, é viva
e la modernità non può eliminare tale "fattore" della realtà, senza
contraddire se stessa e la propria dichiarata empirica pretesa gnoseologica.
La seconda premessa é di tipo semantico:
che cosa intendo, in questo intervento, con "modernità"? É chiaro che
il termine é amplissimo e non é questa la sede per definirlo o comprenderlo, in
tutta la sua complessità. Dichiaro soltanto che, ovviamente, non mi riferisco
unicamente alla "modernità storica", che si chiude con l'epoca
contemporanea e che é, anch'essa differentemente datata, a seconda dei sistemi
di riferimento, né alla "modernità filosofica" in senso stretto, che
domanderebbe di essere integrata almeno con la "post-modernità" e
tutte le conseguenze del cosiddetto "pensiero liquido", che genera la
nostra "società liquida". Utilizzerò il termine "modernità"
in senso analogico, intendendo con esso, nel presente intervento, quella parabola
filosofico-antropologica, o più specificamente gnoseologico-antropologica, che
va da Cartesio al relativismo, passando attraverso le grandi ideologie,
sgretolatesi nel secolo scorso, ed il contemporaneo "tecno-scientismo
virtuale".
La terza ed ultima premessa riguarda la
preparazione del presente intervento, durante la quale ho potuto, ancora una
volta, constatare come i documenti conciliari debbano necessariamente essere
letti in sinossi con gli interventi Magisteriali del Beato Giovanni Paolo II (ne
darò un esempio con la Fides
et ratio) e di
Benedetto XVI. Infatti, almeno dal punto di vista del linguaggio adottato nei
Testi del Concilio, é possibile affermare come, in non pochi casi, esso risulti
non pienamente adeguato alle presenti necessità di dialogo con la cultura e,
dunque, proprio per essere fedeli al Concilio, é necessario leggerlo in piena
continuità, sia con l'intera Tradizione ecclesiale precedente, sia con il
Magistero successivo, nel quale un particolarissimo posto é occupato dal Catechismo
della Chiesa Cattolica, il Catechismo del Concilio.
Fatte queste tre premesse, affronterò il tema
del contributo del Concilio Ecumenico Vaticano II al rapporto tra Chiesa e
modernità, in tre passaggi: 1. la modernità come questione gnoseologica, 2. le
conseguenze antropologiche di una gnoseologia irrisolta e, infine, 3. le
possibili prospettive in ordine alla nuova evangelizzazione.
Affermava il Beato Giovanni XXIII, nel celebre
discorso Gaudet Mater Ecclesia, alla Solenne apertura del Concilio
Ecumenico Vaticano II: "[...] Occorre che questa dottrina certa ed
immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed
esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il
deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda
dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello
stesso senso e nella stessa accezione"[1].
Nei medesimi intenti programmatici del Beato
Pontefice per il Concilio, é possibile ravvisare, da un lato la volontà di un
iniziale tentativo di dialogo con la modernità, dall'altro, certamente, la
dichiarazione di fedeltà all'identità ecclesiale ed a quanto, in essa, non é
suscettibile di umano cambiamento, perché di statuto divino e appartenente all'ininterrotta
Traditio Ecclesiae.
Certo si potrebbe porre, a tale riguardo,
l'impegnativa domanda: "É sufficiente mutare o adattare il linguaggio, per
pensare di rendere più comprensibile una realtà come quella della
Rivelazione?". O, simmetricamente: "É davvero possibile mutare il
linguaggio, senza, in fondo, mutare qualcosa anche del contenuto essenziale del
dato rivelato?".
Parrebbe, in tale contesto, che la questione
del linguaggio domandi ancora particolare approfondimento da parte sia della
teologia, sia della filosofia. L'orizzonte nel quale comprendere e, per certi
versi contenere, la questione é sempre quello dell'Incarnazione del Logos, cioè della Ragione increata che si é fatta carne per
entrare in "dialogo" con la ragione creata. Un dialogo che é
definitivamente segnato da un tempo, uno spazio, un ambito culturale, già
presente e sancito dal Nuovo Testamento, e dal quale non é possibile, in alcun
caso, prescindere.
Il Concilio stesso indica la necessità del
"dialogo" con la modernità, quando nella sua prima Costituzione
afferma: "Il Sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la
vita cristiana fra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo
quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti".[2]
Quasi sottintendendo, come indicato nella
menzionata dichiarazione d’intenti del Beato Giovanni XXIII, che
dall'adattamento alle "esigenze del nostro tempo", sono escluse le
istituzioni non soggette a mutamenti.
1.
La
modernità come questione gnoseologica
Non si trova una definizione precisa
di "modernità", né di "mondo moderno", in alcun testo del
Concilio Ecumenico Vaticano II. Sappiamo che il termine "modernità"
descrive solitamente i diversi tipi di Illuminismo emersi in Occidente, dalla
fine del XVIII secolo in poi. Tali movimenti indicavano, quale orizzonte della
conoscenza, la razionalità strumentale e scientifica applicata tendenzialmente
a tutte le sfere della vita, nella utopistica speranza di emancipare l’umanità,
liberandola definitivamente da ignoranza, sofferenza e oppressione.
Un elemento distintivo della
modernità, che, in certo senso, ne può rappresentare la chiave ermeneutica, é
rappresentato dalla questione gnoseologica. Per la prima volta nella storia,
l'uomo "moderno" ha creduto di non essere più in grado di conoscere
la realtà ed ha progressivamente arretrato - mi si perdoni il voluto ossimoro -
la propria capacita di conoscenza del reale, fino a quella soglia
esistenzialmente insostenibile che oggi chiamiamo relativismo.
Il movimento illuminista, infatti, ha
determinato dapprima un'ipertrofia della ragione, in conseguenza della quale
l’uomo e la sua capacità di conoscenza si sono trasformati da “contemplatori”,
"conoscitori" e "cantori” della realtà, a “limitata misura” del
reale. Un uso di ragione, che pretenda di limitare la conoscenza umana ai soli
dati empirici (qualcuno direbbe “scientifici”) è mortificante per
l’intelligenza umana e non permette alla conoscenza di relazionarsi con la
realtà, secondo la totalità dei suoi fattori.
L'adesione al reale si perde quasi
completamente quando, dall’illuminismo, si passa all’idealismo. Se l’uomo non
conosce più la realtà per ciò che essa è, ma tenta di misurarla (Razionalismo)
o solo di pensarla (Idealismo), egli si auto-confina in una oggettiva
impossibilità di rapportarsi con altro-da-se-stesso e tale atteggiamento ha
evidenti conseguenze antropologiche, come vedremo.
Come se ciò non bastasse, la crisi del
positivismo ottocentesco, determinata dai due conflitti mondiali del secolo
scorso, ha portato ad una sorta di “resa della ragione”, facendo passare l’uomo
dal mito infondato del super-uomo alla situazione attuale, altrettanto
infondata, del più radicale relativismo.
Non c’è da stupirsi se ad una
scorretta idea di ragione di tipo razionalista, che si è infranta contro
l'oggettiva impossibilità, da parte dell’uomo, di controllare se stesso e il
cosmo, ha fatto seguito un altrettanto scorretta ed ingiustificata sfiducia
nella reale capacità di ciascuno di conoscere se stesso, il mondo e Dio.
Il Santo Padre Benedetto XVI ha più
volte richiamato l’attenzione della Chiesa e di tutti gli uomini di buona
volontà sulla necessità di superare il relativismo che caratterizza la nostra
epoca e che, inevitabilmente, giunge a toccare anche le nostre persone e i
nostri ambienti cristiani.
Ad un uomo incapace di conoscere la
realtà, che cosa rimane?
Lo stretto e asfissiante orizzonte delle
proprie emozioni, della propria istintività, veicolata dalla corporeità; da qui
il dirompente edonismo, narcisismo, pansessualismo, nel quale si smarriscono
gli uomini del nostro tempo e dal quale è necessario, con ogni mezzo, aiutarli
a sottrarsi.
Perfino il materialismo, indicato come
orizzonte esistenziale in taluni movimenti ideologici del secolo scorso, è
andato in crisi ed è stato, da un lato, piegato al soddisfacimento dei desideri
e delle passioni, dall’altro, compensato in varie fughe “spiritualistiche” o
new-age che nulla hanno a che vedere con l’umana spiritualità e, men che meno,
con la fede cristiana.
Il Concilio, nella Costituzione
pastorale Gaudium et Spes, coglie l'urgenza della situazione e
ricolloca al centro del dibattito l'uomo, con i suoi bisogni costitutivi e con
il suo rapporto ineludibile con la realtà.
Leggiamo al n. 10: «In verità gli squilibri di
cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio
che è radicato nel cuore dell’uomo. E’ proprio all’interno dell’uomo che molti
elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura,
esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza
confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore».
É la constatazione che la gnoseologia umana non
può ridursi ad un soggettivismo autoreferenziale, ma domanda di riconoscere
l'oggettivo, sia in noi, sia fuori di noi, paragonando poi il tutto con una
tale indisponibile universale condizione.
Anche se certamente in modo
indiretto, il Concilio tenta di rispondere a quella che potremmo definire
"l'emergenza gnoseologica" della modernità, e lo fa ribadendo, in modo
piano, dialogico e propositivo quelle che sono le domande costitutive dell'io,
di fronte alle quali nessuna riduzione é ammessa, pena la rinuncia alla vita
stessa.
Continua Gaudium et Spes:
«di fronte all'evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi
quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più
fondamentali: cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della
morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle
conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l'uomo alla società, e cosa
può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?».
A questi interrogativi, che come una lama
attraversano il cuore di ciascuno e, nel contempo, attraversano per la loro
oggettività tutto l'empasse della modernità, risponde con una
piana confessione di fede: «La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e
risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per
rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli
uomini, mediante il quale possono essere salvati. Essa crede anche di trovare
nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia
umana». (GS, 10).
Fino alla vera e propria affermazione rilevante
a livello gnoseologico: «Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò
che muta stanno realtà immutabili». E ancora: «Esse trovano il loro ultimo
fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli».
Non solo esiste la realtà ed é conoscibile, ma
dietro ciò che muta, esistono "realtà immutabili". Questo il primo
fondamentale contributo del Concilio al dialogo con la modernità, la messa a
tema, seppure iniziale, della questione gnoseologica che, negli anni, lo
vediamo, é divenuta sempre più urgente e drammaticamente rilevante.
L'uomo contemporaneo, inserito in un meccanismo
tecnologico ed affascinato dal potere che ha raggiunto nel manipolare la
realtà, anche biologica, la stessa realtà della vita, ritiene se stesso
autosufficiente, pur nella aporetica condizione di sperimentare il senso del
limite e porsi le domande fondamentali, inscritte nel suo cuore.
Il senso pieno delle affermazioni Conciliari,
lo ritroviamo nella Fides
et ratio del Beato
Giovanni Paolo II. In essa si descrive il processo naturale che la ragione
umana percorre, il suo prefiggersi delle mete, superarle, ma, nel contempo,
sorprendersi limitata e inadeguata, sperimentando l’inadeguatezza, e,
sperimentando, in questo modo, che l’Infinito esiste.
«L’uomo, per natura, ricerca la verità. Questa
ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o
scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna delle sue
decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è
perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell’assoluto». (Giovanni Paolo II, Lett. Encicl., Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 33).
Appare chiaro come la questione gnoseologica ci
abbia condotto già, e non poteva essere altrimenti, nel cuore della questione
antropologica. La capacità di conoscere il reale, é infatti determinante perché
l'uomo possa definire se stesso. Forse con una punta di fondato ma eccessivo
ottimismo, così si esprime ancora la Gaudium
et Spes: «Nella luce
di Cristo, immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature il
Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per
cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro
tempo» (GS, 10).
2. Le conseguenze antropologiche di
una gnoseologia irrisolta
La Gaudium et spes, anche se con un’analisi
culturale e sociale, che oggi è, in parte, oggettivamente “datata”, indica la
questione gnoseologica come radice dei mutamenti antropologici e culturali.
Al n.
7, infatti, afferma: «Il cambiamento di mentalità e di strutture, spesso, mette
in causa i valori tradizionali, soprattutto tra i giovani: frequentemente
impazienti, essi diventano ribelli per l’inquietudine; consci della loro
importanza nella vita sociale, desiderano assumere al più presto le loro
responsabilità. Spesso, genitori ed educatori si ritrovano, per questo, ogni
giorno, in maggiori difficoltà nell’adempimento del loro compito.
Le
istituzioni, le leggi, i modi di pensare e di sentire ereditati dal passato non
sempre si adattano bene alla situazione attuale; di qui, un profondo disagio
nel comportamento e nelle stesse norme di condotta.
Anche
la vita religiosa, infine, è sotto l’influsso delle nuove situazioni. Da un
lato, un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica del
mondo e dalle sopravvivenze superstiziose ed esige un’adesione sempre più
personale e attiva alla fede; numerosi sono, perciò, coloro che giungono ad un
più vivo senso di Dio. D’altro canto, però, moltitudini crescenti praticamente
si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio, o la
religione, o farne praticamente a meno non è più un fatto insolito e
individuale. Oggi infatti, non raramente, un tale comportamento viene
presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di
umanesimo».
In
quest’ultima affermazione, secondo la quale il fare a meno di Dio verrebbe
«presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di
umanesimo», troviamo il nucleo della questione che ci sta a cuore: la
modernità, con il grande limite gnoseologico che la caratterizza, è compatibile
con l’Avvenimento cristiano?
L’idea
di progresso, che dalla modernità emerge, idea che pure porta in se stessa
un’eco remota del bisogno di infinito proprio del cuore umano, può aprire alla
relazione con il Mistero, o rischia di rifugiarsi in un’utopistica
auto-affermazione dell’uomo? E ancora, senza Dio, quale tipo di “nuovo
umanesimo” è possibile attendersi?
Emerge
chiaramente come, da tali centrali questioni, paragonate con la situazione
attuale, dal punto di vista antropologico, prevalga una forma di
auto-giustificazionismo; è come se l’intero comportamento umano fosse
determinato dal momento storico; come se la morale e il cuore dell’uomo dovessero
obbedire ad un meccanicismo determinista, che avrebbe, come unica drammatica
conseguenza, l’eliminazione della libertà personale e della volontà di aderire
al bene. Tale situazione, come indicato dallo stesso Documento al n. 8,
determina una divisione all’interno dell’uomo. Divisione che l’annuncio
evangelico, l’incontro con Cristo, la grazia sacramentale e la vita ecclesiale
sono chiamati ad aiutare a superare.
«Al
livello della persona, si nota molto spesso lo squilibrio tra una moderna
intelligenza pratica e il modo di pensare speculativo, che non riesce a
dominare, né a ordinare in sintesi soddisfacenti l’insieme delle sue
conoscenze. Uno squilibrio si genera anche tra la preoccupazione
dell’efficienza pratica e le esigenze della coscienza morale, nonché, molte
volte, tra le condizioni della vita collettiva e le esigenze di un pensiero
personale e della stessa contemplazione. Di qui ne deriva, infine, lo
squilibrio tra le specializzazioni dell’attività umana e una visione universale
della realtà».
È
proprio questa visione universale della realtà, che include la coscienza
dell’esistenza del reale e della sua conoscibilità, il più efficace contributo
dato dal Concilio al rapporto tra fede cristiana e modernità; esso è anche il
più grande servizio che la Chiesa possa offrire al mondo, nell’epoca moderna.
Potremmo
dire, in maniera molto sintetica, ma probabilmente efficace, che essere Chiesa
nell’epoca moderna, significa restituire all’uomo la capacità di conoscere il
reale, di entrare in rapporto con quella realtà, che le derive gnoseologiche
degli ultimi tre secoli hanno volontariamente reso evanescente, perché la
realtà è pur sempre il luogo, nel quale il Logos Eterno si è definitivamente
manifestato. Censurare la realtà significa, per conseguenza, censurare il luogo
in cui Dio si è fatto “storia”, tentando di impedire all’uomo l’incontro con il
Mistero.
Come è
possibile evincere da tali valutazioni, non ci si trova soltanto di fronte alla
discussione dialettica tra differenti legittimi metodi di conoscenza, i quali,
peraltro, sono sempre stati ammessi dall’epistemologia cristiana e, anzi,
incentivati, perché solo un metodo adeguato all’oggetto è capace di autentico
portato referenziale.
La vera
questione è che un uomo, privato della capacità di cogliere il reale, secondo
la totalità dei suoi fattori, confinato in un metodo di conoscenza di tipo
scientifico-positivo, ritenuto l’unico in grado di giungere ad una qualche
certezza condivisibile, è un “uomo amputato”, non corrispondente nemmeno a ciò che
esso stesso sente profondamente di essere.
Appare
evidente come tali passaggi del Concilio possano e debbano essere letti in
immediata ed efficace sinossi, sia con la Fides
et ratio del Papa Giovanni Paolo II, sia, in modo ancora più evidente, con
i continui richiami del Santo Padre Benedetto XVI ad «allargare i confini della
razionalità».
Dal
Discorso di Regensburg in poi, il Magistero pontificio va, con chiarezza, in
questa direzione, indicando, in negativo, il legame oggettivo tra crisi
gnoseologica e crisi antropologica, e in positivo, la via del recupero di una
corretta gnoseologia, come strada per una corretta antropologia, che spalanchi
al rapporto con il reale, nel quale il Mistero si manifesta.
Nel Motu Proprio Porta
Fidei, in merito, leggiamo: «La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta
più che nel passato ad una serie di interrogativi che provengono da una mutata
mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a
quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche.
La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di
mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto
perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità» (n. 12).
3. Le
possibili prospettive in ordine alla Nuova Evangelizzazione
Abbiamo
appena concluso, anche con il Vostro Patriarca, il Sinodo sulla Nuova
Evangelizzazione ed è emerso, con chiarezza, come essa non possa, in alcun
modo, prescindere dall’autocoscienza ecclesiale: solo una Chiesa
“evangelizzata” è capace di essere “evangelizzante”.
In
questo senso, è necessario ricordare come la Chiesa debba annunciare Gesù
Cristo al mondo, con un metodo, che non può, in alcun caso, essere storicista,
poiché lo storicismo, implicitamente, nega la validità perenne del vero,
presentandolo come condizionato alle contingenze storiche; da questo punto di
vista, grave è la deriva rischiata da molta teologia contemporanea, che tende a
presentarsi come riflessione storica, tendente allo storicismo, rinunciando ad
una precisa oggettività referenziale e dalla pretesa veritativa del dato
rivelato. Credo che, in questa direzione, i primi due volumi di Joseph
Ratzinger – Benedetto XVI su Gesù di Nazaret siano un poderoso antidoto allo
storicismo e siano da accogliere, soprattutto, per il loro portato
metodologico.
Altro
grosso limite da evitare, nella Nuova Evangelizzazione e nella riflessione
teologica ed ecclesiale, è quello dello scientismo: di pretendere, cioè, che le
affermazioni ed i contenuti della Rivelazione possano parlare all’uomo moderno,
solo se superano il vaglio del metodo scientifico-positivo.
«Questa
concezione filosofica – leggiamo nella Fides
et ratio – si rifiuta di ammettere, come valide, forme di conoscenza
diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei
confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia
il sapere etico ed estetico. Nel passato, la stessa idea si esprimeva nel
positivismo e nel neo-positivismo, che ritenevano prive di senso le
affermazioni di carattere metafisico.
La
critica epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce
sotto le nuove vesti dello scientismo. In questa prospettiva, i valori sono
relegati a semplici prodotti di emotività e la nozione di essere è accantonata
per fare spazio alla pura e semplice fattualità» (n. 88).
In tale
contesto, la Chiesa è chiamata a riprendere coscienza della sua altissima
missione e del compito che Dio le ha dato.
Portando
la salvezza agli uomini, Gesù Cristo è Dio stesso che è entrato nella storia e,
per tale ragione, la salvezza non è altro rispetto alla Sua concreta Persona.
«Non vi è, infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è
stabilito che possiamo essere salvati» (At
4,12). Tra i vari aspetti, della Divina Rivelazione, derivanti direttamente dal
Mistero dell’Incarnazione, dal fatto cioè che Dio si è fatto uomo, assumendo
totalmente, eccetto il peccato, la nostra concreta natura umana, c’è il fatto
che Gesù Cristo è venuto ad educare il nostro senso religioso.
Nell’epoca
della modernità, cosciente della crisi gnoseologica, nella quale da secoli
siamo immersi, e della crisi antropologica, che ne deriva, la Chiesa è chiamata
all’opera della Nuova Evangelizzazione, imitando il suo Signore e operando,
come Lui, per l’educazione del senso religioso dell’uomo.
Non di
rado, soprattutto nel tempo immediatamente post-conciliare, interpretando, in
maniera per lo meno unilaterale, il dettato del Concilio, si è parlato di un
primato dell’uomo e dei valori umani e di una presunta precedenza della
promozione umana sull’evangelizzazione.
Le
conseguenze di tale fraintendimento sono sotto gli occhi di tutti, sia in
ordine alla confusione sull’identità rispettiva dei ministri Ordinati, dei
consacrati e dei fedeli laici, sia sulla deriva che, nei tre menzionati ambiti,
la formazione ha subito.
Non a
caso nel Motu Proprio Porta Fidei, il
Santo Padre ha affermato: «Capita
ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le
conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a
pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti,
questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato» (n. 2).
L’esperienza
di duemila anni di Tradizione ecclesiale ed un primo bilancio, teoretico e
pragmatico, di questi primi cinquant’anni dal Concilio, indicano, con lucida
chiarezza, come il solo autentico modo per interpretare la giusta promozione
umana sia quello di aiutare l’uomo a sottrarsi da ogni concezione riduzionista
della realtà, a recuperare, sostenendolo nel recuperare, la propria statura
ontologicamente aperta all’Essere infinito, perché appartenente all’Essere.
Potremmo
dire che, alla radice della Nuova Evangelizzazione, c’è l’azione ecclesiale di
promozione umana, una promozione capace di restituire l’uomo all’uomo e,
perciò, Dio all’uomo e l’uomo a Dio.
Assumere con consapevolezza le sfide della
modernità e, conseguentemente, essere Chiesa nel tempo della modernità, non può
significare, in alcun caso, inseguire le “mode” culturali, morali, o sociali,
di fronte alle quali, come Chiesa, ci troviamo.
L’identità
della Chiesa non è definita, in modo storicistico, dalle circostanze, ma è
stata definita, una volta per sempre, da Cristo suo Capo ed è continuamente
rinnovata, resa giovane ed attuale dallo Spirito, che dinamicamente la guida
nella storia. In ogni tempo, di fronte ad ogni avversità e negazione, la Chiesa
ha saputo solcare anche le tempeste più violente, mantenendo fede alla propria
identità e lasciando che fosse Pietro a tenere saldo il timone della Nave di
Cristo, collaborando con Pietro e “remando” nella direzione indicata da Pietro.
Il
necessario dialogo con le culture incontrate e, dunque, il necessario dialogo
con la modernità, non può risolversi in una assunzione di modelli culturali,
innanzitutto estranei all’uomo, alla sua struttura antropologica e, perciò,
estranei a Cristo e, necessariamente, estranei alla Chiesa.
Non si
tratta, qui, certamente di ostinarsi nella proposta di modelli culturali
passati, che forse danno maggiori sicurezze, ma che sono praticamente
indecifrabili per l’uomo contemporaneo, quanto, piuttosto, di avere la capacità
di stare realmente di fronte l’uomo, aiutandolo a riscoprire le proprie
esigenze fondamentali e costitutive, e riconsegnandolo a quelle evidenze
fondamentali, ontologicamente rilevanti, che costituiscono il presupposto e
l’esperienza elementare di ogni umana esistenza.
In ogni
circostanza, anche quella apparentemente più drammatica e priva di speranza, culturalmente
o moralmente parlando, la concreta possibilità di una educazione dell’uomo e
del suo senso religioso è data sempre dal concreto uomo che abbiamo di fronte,
dal suo cuore fatto da Dio e per Dio, e dalla capacità, che, come Chiesa
abbiamo di intercettarne i bisogni e rispondervi con quella parola del Vangelo,
così umana e così divina, che Gesù ci ha lasciata e che è la Sua stessa
prossimità ad ogni uomo.
Tale
percorso la Chiesa lo compie, essendo fino in fondo se stessa, leggiamo ancora
nella Lumen gentium al n. 17:
«predicando il Vangelo, la Chiesa dispone coloro che la ascoltano a credere e a
professare la fede, li dispone al Battesimo, li toglie dalla schiavitù
dell’errore e li incorpora a Cristo, per crescere in Lui, mediante la carità,
finché sia raggiunta la pienezza. Procura, poi, che quanto di buono si trova
seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture dei
popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a
gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell’uomo. Ad ogni discepolo
incombe il dovere di disseminare, per quanto gli è possibile, la fede».
Questo
l’augurio che rivolgo a me stesso e a ciascuno di voi, che, soprattutto in
quest’Anno della Fede, possiamo essere autentici discepoli, capaci di
disseminare la fede, educando il senso religioso umano, come ha fatto Gesù
Cristo, e contribuendo al grande cammino della Nuova Evangelizzazione.
Il
contributo del Concilio, letto alla luce del Magistero, che ne è seguito e lo
ha attualizzato, soprattutto alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica e
degli interventi pontifici, conserva tutta la propria forza dinamica e ci
indica come “essere Chiesa nel tempo della modernità”.